vignétta
[fr. vignette, propr. dim. di vigne ‘vigna’: detta così
perché un tempo l’inizio della prima pagina di un libro
(o anche di ogni capitolo di un libro) era ornato con tralci
e viticci; 1598]
da: Zingarelli 2007
“Uno degli elementi indispensabili per conoscere veramente una parola (e quindi sapere davvero come usarla) è la consapevolezza degli stadi precedenti attraverso cui è passata. Conoscere la storia della lingua che si usa conferisce capacità di usarla, perché significa sapere come essa ha assunto la forma che ha. Cioè, significa sapere davvero come è fatta. Chi non sa come è venuta in essere una realtà complessa, non potrà mai sapere davvero come funziona. Ne avrà una conoscenza superficiale che va bene finché ne fa un uso semplice e banale, ma non saprà usarla creativamente o far fronte ad imprevisti.”
da: La linguistica. In pratica, di Edoardo Lombardi Vallauri (Il Mulino, 2007).
Un libro che ho finito or ora di leggere, pensato per gli studenti universitari, ma piacevolissimo e utile anche ai praticoni della lingua come me, perché introduce alla linguistica “cercando di rispondere continuamente alla domanda: a che serve sapere questa cosa, nella vita privata e professionale di una persona?”
Te l’ha ispirato Vecchioni il titolo del post?
Mi riferisco al suo romanzo d’esordio…
Andrea
Sì, Andrea 🙂
Luisa
Mi ricorda molto Michail Bachtin
“Nessun membro della comunità verbale trova mai parole della lingua che siano neutre, immuni dalle aspirazioni e dalle valutazioni altrui, che non siano abitate dalla voce altrui. No, Ognuno riceve la parola attraverso la voce altrui, e questa parola ne resta colma. Interviene nel suo proprio contesto a partire da un altro contesto, permeato dalla intenzioni altrui. La sua propria parola trova una parola già abitata”
Ciao
“Le parole non le portano le cicogne”, che ricordo segnalai a suo tempo ad Alessandro Lucchini e lui si mise a ridere, perché lo stava leggendo proprio in quei giorni sua moglie, non è affatto il romanzo d’esordio di Vecchioni, che invece è, direi, “Il Grande Sogno” del 1983, anche se “Le parole” trovo sia il suo libro più affascinante. Sarà che forse risente maggiomente della sua esperienza di insegnante di lettere antiche, e quindi anche di filologia. Dell’anno scorso poi “Il diario di un gatto con gli stivali”, che mi lascia perplessa, perché da brava fan di Betthelheim, le fiabe cristallizzatesi nei secoli in determinate forme, per mantenere intatto il loro valore psicopedagogico, diciamo così, credo dovrebbero essere rispettate proprio per quelle forme, e così narrate.