Si possono avere tutti i libri d’arte del mondo, i cataloghi delle mostre più belle, slideshow di qualità digitale, ma non c’è nulla che ti possa dare nemmeno un decimo dell’emozione che ti dà un’opera d’arte quando ti ci trovi davanti. Ogni volta è diverso, ogni volta è una sorpresa, anche nei confronti di artisti che credi di conoscere bene.
Per chi, come me, passa tanto tempo davanti allo schermo di un computer, con quei pixel ormai capaci di riprodurre tutto, è un benefico shock. Ne avevi bisogno, ma finché non l’hai provato di nuovo, non potevi sapere quanto.
Se poi quello che vai a vedere non rappresenta re, regine, madonne con bambini, paesaggi, fiori e frutta, ma solo un piccolo frammento di realtà, allora ti fa ancora più bene.
Usciti dalla seconda guerra mondiale con le ossa rotte e il morale a terra, incapaci di credere che la razionalità e la capacità di indagine dell’uomo potessero alcunché, molti degli artisti degli anni Cinquanta sfiduciarono la forma e si rivolsero alla materia, che della forma era invece sempre stata l’ancella.
I rapporti si capovolsero: legni, sacchi, sabbia, colla, camicie, ferri, oggetti della vita quotidiana – anche i più umili e consumati – insieme al colore, cominciarono ad aggregarsi non più in quadri, ma in plastici di forme, in paesaggi dell’anima. Alle pareti delle Scuderie del Quirinale, di questi paesaggi ce ne sono moltissimi, elaborati dal 1945 a oggi.
L’informale ha delle forme bellissime, in cui la materia non parla al cervello, ma direttamente al cuore e alle emozioni. I sacchi di Burri sono pieni di slabbrature, ricuciture che non tengono, dolori rossi e cupezze nere che si fanno strada, come la mia memoria e i miei proponimenti in un giorno di un anno che sta finendo. Non sono piatti e lucenti come un olio fiammingo, ma pieni di cicatrici e di escrescenze.
La terra e la pelle si fanno aride nei cretti crepati, mille fessure in una ragnatela di vuoti. A contatto con il fuoco i vecchi legni si sono anneriti, mentre le plastiche rosse esplodono e colano, diventano polmoni, cervelli, cuori aperti.
Ma i cuori e i cervelli sono pronti al sorriso quando Lucio Fontana racconta una notte di luna a Venezia con tanto catrame nero incorniciato d’argento. Notte di stelle in argento bucato, e vetri colorati a fare una festa che sembra organizzata al momento, solo per te.
Lungo le sale si raccolgono gli oggetti della vita quotidiana, i meno considerati, i più facilmente dimenticati: stracci, brandelli di manifesti. Muri sui muri: sbarrati, graffiati e graffitati, vuoti o pieni di piccoli racconti come quelli della metropolitana. Muri divertenti e poetici, come quelli di Schnabel, che ti ci chiuderesti dentro per un po’ a pensare e a sognare.
La cura materica ti fa vedere con altri occhi anche un pittore ottocentesco come il veneziano-parigino Zandomeneghi, disegnatore di moda e ritrattista alla moda. Guardi le sue donne intente al lavoro, immerse nella lettura o abbandonate nel sonno, ma i tuoi occhi sono presi da quei blu e verdi pavone, rosa salmone, viola delle violette che trionfano sui cappelli.
E allora anche i fiori di un vaso in un interno borghese sembrano esplodere come i colori dai tubetti, sono fili che volano o i fuochi di artificio che tra poco bucheranno il cielo.
Bello articolo!
Ricordo una bella mostra di Zandomeneghi a Castiglioncello (LI), due estati fa.
I tuoi suggerimenti sono sempre intelligenti e preziosi, grazie!