In questi giorni si è molto scritto sui giornali su sms e scrittura, sms e giovani, sms e letteratura.
Io gli sms li amo e li uso proprio per quel loro essere uno strumento di comunicazione non assimilabile a nessun altro. Funzionale e poetico insieme.
Puoi mandare un ok ferma sul motorino al semaforo o lanciare pensieri e sussurri a qualsiasi ora del giorno e della notte. Messaggi che inevitabilmente ne chiamano e ne invitano altri.
Io non uso abbreviazioni, né simboli, perché quel che mi piace è proprio riuscire a concentrare in 160 caratteri un messaggio chiuso, completo, con una sua forma, e anche delle sue risonanze, che si possa tenere, archiviare, rileggere e ricordare.
I vincoli nella scrittura sono sempre preziosi, che si tratti dei pochi caratteri di un messaggino, della metrica in una poesia, del brief in una campagna pubblicitaria. Ma il trionfo della brevità come regno della scrittura alla portata di tutti comincia a darmi sui nervi.
Il Corriere della Sera invita a giocare concentrando un Classico in 160 caratteri, molti intellettuali inneggiano al “ritorno alla scrittura” da parte dei giovani, i concorsi letterari a base di sms e raccontini minimali impazzano, i blog singhiozzano tra frasi smozzicate e puntini puntini.
La misura breve, difficilissima, diventa norma e salvezza nella comunicazione.
Ho corretto di recente molte tesine di master universitari: due, quattro, al massimo otto pagine. Pulite, ordinate, semplici. Brevi le tesine, brevi le frasi. Ritmo zero.
Eppure il mondo della comunicazione non è solo slogan, piccoli testi per il web, elenchi puntati di powerpoint. Qualcuno agli studenti dovrebbe avere il coraggio e l’onestà di spiegarglielo.
E’ anche relazioni di bilancio, offerte, progetti. Tutti documenti lunghi, spesso complessi, in cui si deve argomentare e anche sedurre con le parole per convincere della bontà di un’idea, difendere la reputazione di un’azienda, ottenere un finanziamento. Tutte cose per cui ci vogliono allenamento e fiato, un orizzonte di molte pagine davanti e non la prospettiva del punto dopo pochi capoversi.
Mi piace pensare ai testi anche come a oggetti che si possono vestire e poi guardare: rossi, gialli, verdi in una pagina web, vestiti di un lettering scanzonato o serissimo, trendy o antiquato, soli in una pagina bianca o affollati come in metro nell’ora di punta. Spesso mi piacciono corti, in equilibrio come su tacchi altissimi, con tanti accessori intorno. Ma bisogna essere capaci di confezionare anche quelli lunghi, elaborati, raffinati, ricamati. Arriva sempre l’occasione in cui servono.
Sei una tecnica della comunicazione allora?
Il limite di 160 caratteri valeva anche per i microgialli raccolti da Zop l’anno scorso.
“li” sms? spero sia un refuso…
c.
Corretto.
Grazie Chubbyhuggs.
Luisa
Sono d’accordo, Luisa.
E penso anche che alla sartoria si accompagni il tempo:
sappiamo ancora dare e darci tempo, attendere?
La fretta è nemica dell’attenzione verso l’altro,
quando si tratta di ascoltarlo, leggerlo, oppure saperlo accompagnare
attraverso gli snodi di un testo che dipani emozioni, argomenti, calcoli.
E anche dell’attenzione verso se stessi, quando si tratta di spendersi un po’ più
che in una formula a effetti speciali.
Mi pare che attenzione e attendere siano parenti: parlano entrambi di “rivolgere l’animo a…”
Ecco, a volte sarà mica l’animo a essere altrove? 😉
annalisa
La brevità è un ottimo esercizio. Di stile, se non altro. E lo dico proprio io che mi ritrovo sempre a dover tagliare le mie stesse sbrodolate illeggibili. Il problema è quando la scrittura è breve perchè mancano le idee, abituati come siamo a scrivere, parlare, pensare con la velocità di un sms.
diffidavo degli sms e mi sbagliavo.. saluti
http://blog.virgilio.it/ildolceforno
Vorrei una tua opinione a proposito di relazioni lunghe e progetti, anche finalizzati alla richiesta di finanziamento: è possibile che si debba usare necessariamente espressioni “auliche” (stando, almeno, alla definizione che ne da chi le usa), ricche di inglesismi/neologismi tecnici, pure storpiati, quando è possibile argomentare con termini meno forbiti (forse!) e italiani, ma sicuramente più chiari?
Espressioni tipo: “…l’ipotonicità della propensione culturale e delle spinte endogene a sostegno dell’innovazione espressa da parte dei …”, oppure: “…in grado di coniugare entrepreneurship e …”, non so perché, ma a leggerle i miei occhi abbandonano la loro naturale collocazione e mi escono dalle orbite. Ritieni che si tratti di un semplice caso di invidia per non riuscire a rassegnarmi all’uso di espressioni analoghe, oppure?
Molte grazie anticipate,
albycocca@yahoo.com
AlterEs
In effetti hai toccato un tasto un po’ impolverato della mia coscienza. E’ impolverato perchè evito accuratamente di batterlo. Lo lascio stare per non ritrovarmi davanti un interlocutore sbadigliante, che muovendo la testa in senso di assenso, mi comunichi la sua mancanza di interesse. E’ meglio essere economici : abbreviare, sintetizzare e limitarsi alla creatività di un emblematico più che poetico acronimo.
Ed io sono daccordo. In parte.
Che tutto cambi con il passare del tempo è inevitabile e noi siamo qui proprio per dimenticare ciò che ci appesantisce la memoria. Quindi per la comunicazione “spicciola” è molto comodo evitare di ricordare, piuttosto che affrettarsi a dimenticare. Estrarre, mirare, colpire.
Il problema è che la comunicazione è come l’acqua : meno ne hai, più cerchi il modo per farne a meno. Pensate a quei grassi cactus, spessi, con un sacco di spine. Non hanno voglia di essere toccati, proprio come gli esseri umani di oggi. Toccati semplicemente dalla mano di un proprio simile oppure toccati dalla voglia di pensare, di sognare e di scrivere un libro di 50 pagine solo per voler dire “ciao”.
😉
p.s. sei molto, molto in gamba Luisa… mi piacerebbe un giorno diventare metà di quello che sei.
160 caratteri sono troppo pochi per esprimere un idea,portare un messaggio…C’è tanta gente che tronca le relazioni via sms…Che squallore.Ah,se ne avete voglia,venite a visitare il mio blog,è nuovissimo (e vuotissimo,per ora).