A questa triade di aggettivi, sempre più diffusi negli scritti e nei discorsi degli italiani, dedica oggi un articolo Pietro Citati su La Repubblica.
Il “massimo” andrebbe contestualizzato e verificato, dando per esempio dei termini di paragone o dei metri di misura. Invece di massimi ce ce sono moltissimi, in ogni campo. ma soprattutto in quello universitario e della critica.
Un “grande”, invece, nella sua estrema genericità, non si nega a nessuno. Poiché nessuno può decretare chi è grande, tutti siamo grandi.
Sui media il “grosso” è quasi sempre un personaggio, nella scrittura di impresa quasi sempre un problema o un progetto, un’iniziativa.
Citati è spietato e ci ricorda chi sono veramente i grandi: quelli capaci di regalarci gioia anche a distanza di secoli, anche per poco tempo. Attraverso i loro versi, i romanzi, i colori, le note.
L’articolo è un bello spunto di riflessione anche per lo scrittore professionale, sempre sedotto dalla facile tentazione degli aggettivi. Gli ricorda che un prodotto o un servizio non diventano i migliori, i più utili, i più indispensabili perché lo scriviamo noi, ma perché solo rimangono nella memoria, nel gusto, nel ricordo di chi li acquista e ne fruisce.
Pur concordando pienamente con quanto scritto, azzarderei una domanda da profana (forse da stupida, certo da ignorante in ambito di pubblicità-marketing): ma lo scrittore professionale non deve forse cedere alle lusinghe degli aggettivi altisonanti per convincere il cliente a comprare detto servizio/prodotto?
I never thought I would find such an everyday topic so enilgalhtnr!
non fa una piega.
Meglio un aggettivo in meno e un sostantivo in più. La scrittura comunica se è fatta di immagini e di emozioni. Gli aggettivi aggiungono solo un po’ di sale e niente più.
Unica eccezione, forse, il tormentone: ” Un pennello grande – Un grande pennello”.
Vi sono presidenti di C.d.A., manager e dirigenti che lo ripetono ancora, instancabilmente.
Io sono convinto invece dell’importanza dell’aggettivo: se ben usato permette di comunicare anche il contesto oltrechè il semplice fatto; forse da scrittori sarebbe meglio fare attenzione all’utilizzo, spesso eccessivo, dell’avverbio.
Marco
Ah sì, l’avverbio è da chiudere in un recinto e da liberare solo in casi eccezionali! 🙂
Lo uso molto poco…
Il direttore della Emi, nel suo editoriale online in questi giorni, dice così:
“CITIUS più veloce, ALTIUS più alto, FORTIUS più forte. Queste parole sono la quinta essenza della nostra civiltà: sforzatevi di essere più veloci, di arrivare più in alto e di essere più forti.
I nuovi stili di vita propongono: LENTIUS più lento, PROFUNDIUS più in profondità, SOAVIUS più dolcemente.
Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però, a livello personale, si respira meglio, si vive più autenticamente. A livello di comunità religiosa e civile, locale, nazionale e mondiale, si può sognare qualcosa di nuovo superando la politica delle emergenze che dà più soddisfazione a chi tale politica la fa che a coloro a beneficio dei quali tale politica viene fatta”.
Respiriamo bene: vivremo meglio e scriveremo meglio. Saremo persone capaci di amare ciò che siamo, ciò che facciamo, le persone e gli ambienti che ci circondano.
Nella scrittura come nella vita (ma la scrittura E’ vita) la piccolezza nasconde entusiasmo. Forza, colleghi e compagni: diamoci dentro con la piccolezza. E’ un percorso lento, con molti ostacoli, ma ricco di graziosi doni.
Alessandro
Il massimo, il grande e il grosso fotografano bene una situazione sociale che farebbe bene a rimpiangere il buono, il brutto e il cattivo. Sì, forse gli aggettivi una volta servivano per definire le cose. Forse, eh.
Un fiore che si schiude lentamente,
con la pazienza della natura.
Vedo questo nel piccolo, si’.
La seduzione del sussurro
sull’imporsi del boato.
anna