Progettare la comunicazione di Leonardo Romei ha un titolo promettente ma terribilmente impegnativo. Tanto più che si tratta di un libro leggero sia nello spessore (200 pagine), sia visivamente (molti spazi bianchi, molti schemi, ma queste sono tutte cose positive ovviamente).
Anche per questa leggerezza l’ho letto in poche ore. All’inizio ho avuto una sensazione strana, forse perché ho letto questo libro dopo quello di Falcinelli, di cui Romei è allievo. Quanto Falcinelli mi è sembrato denso e pieno – strabordante a tratti – quanto questo nelle prime pagine mi è sembrato aereo, esile, sottile. Man mano che ho proceduto nella lettura ho capito meglio questa esilità: Progettare la comunicazione è un modello, un contenitore che sei tu a dover riempire (l’autore mi aveva avvertita sin dall’inizio, ma le cose-parole vanno sempre sentite e sperimentate). Gli esempi ci sono, e molto calzanti, perché semplici, alla portata di tutti: le istruzioni di un rasoio, una stretta di mano, dei segnali stradali, un piano di evacuazione di un edificio, la vetrina di un bar pasticceria, il registro di una scuola. Più un certo numero di esperimenti mentali altrettanto semplici, come immaginare di assaggiare un frutto che non esiste.
Romei astrae molto, a partire dai termini scelti con grandissima precisione, e questo ha messo a dura prova una praticona come me: unità di comunicazione, chiave di fruizione, sistemi espressivi… ma alla fine è stata proprio questa sorta di “trasparenza” a far sì che cominciassi a calare con facilità nel modello proposto le mie “unità di comunicazione” e cioè i testi. A vederli interagire, connettersi e cambiare nelle diverse situazioni, man mano che l’autore, di capitolo in capitolo, propone un nuovo elemento, un nuovo punto di vista. Lo fa in modo studiato e molto ordinato, per cui non perdi mai il filo: quello che hai appena letto resta con te, sei tu che ti sposti di poco e ricominci a considerare, a guardare.
Alla fine, capisci l’operazione, che è quella di mettere te – fruitrice e progettista – al centro di quell’architettura sottile che avevi intravisto all’inizio, sottolineata anche dai tantissimi schemi, e che io ho sentito materializzata in una serie di domande che dovrei farmi ogni volta che mi accingo a scrivere. La più importante di solito me la faccio e la propongo sempre anche in aula: non “cosa devo dire” e nemmeno “come lo devo dire”, ma “cosa voglio ottenere”. Cosa desidero che il lettore veda, immagini, senta, provi, faccia dopo aver letto il mio testo?
Queste cose Romei le chiama “effetti”: l’effetto del suo libro su di me è stato il deciso spostamento dell’attenzione dal benedetto e fin troppo esaltato “contenuto” al suo fruitore e alle tante variabili della situazione di fruizione. D’altra parte progettare, l’autore lo ricorda, significa “gettare avanti”, portare avanti”.
Ciao Luisa, molto interessante la tua recensione, andrò sicuramente a leggerlo. Noi li chiamiamo “risposte attese” per i documenti in generale oppure per i manuali di istruzione sono gli “obiettivi” che deve raggiungere l’utente. Sono formidabili chiavi che ti aiutano a focalizzare la scrittura e renderla incredibilmente mirata e concreta. Grazie per la segnalazione
Vilma, il primo esempio è un libretto di istruzioni 🙂
A una comunicatrice tecnica come te il libro piacerà per il suo rigore.
Luisa
Io vorrei invece dare a tutti voi un esercizio, scrivete su: 1. Il profumo del risveglio. 2.Il colore della notte. 3.un rumore famigliare. 4. Quel sapore dell’infanzia. 5. Quel tocco da cui presi la distanza.
Metterete così in gioco i 5 senso, buon lavoro, maria teresa
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