La scrittura negli atenei, nonostante le buone intenzioni
Le prime parole che si leggono sul mio sito sono “Semplifico le scritture complicate”. Tra le più complicate cui ho lavorato negli ultimi anni ci sono quelle delle amministrazioni delle università: email, bandi, regolamenti, cioè tutti quei testi che servono alle ragazze e ai ragazzi della Generazione Z per vivere a pieno un periodo fondamentale della loro vita.
La parola latina universitas significa totalità, universalità. La scrittura degli atenei dovrebbe quindi essere il massimo dell’apertura e dell’accoglienza, fatta di chiarezza, sollecitudine, disponibilità. Ancora non è così, nonostante il tanto impegno, le buone intenzioni e le buone volontà di chi ci lavora.
Il tono di voce del prefetto che è in me
Però dopo tante edizioni del lab, in cui ho analizzato centinaia di testi e incontrato persone di tanti atenei, credo di aver messo a fuoco insieme a loro anche alcuni dettagli e aspetti più sottili che danno ai testi quello che chiamo scherzosamente il “tono di voce del ministero dell’interno”. Scherzosamente, perché non ho nessuna intenzione di denigrare il ministero dell’interno (anzi è tra i pochi ad aver pubblicato una guida niente male alla comunicazione e alla scrittura), ma perché quando leggo certe cose sento subito la voce e il ticchettio della macchina da scrivere del brigadiere di Calvino. Insomma, ci siamo capiti.
Quel tono di voce in realtà fa spesso capolino quando si scrive per dare delle regole. E infatti è ancora molto diffuso nelle circolari aziendali e persino nei testi delle Risorse Umane, che pur si vogliono oggi tutte inclusive. E allora la domanda che ci siamo fatte nei lab è stata soprattutto: “Come essere accoglienti anche quando si devono dare regole precise, tracciare confini e dire senza ambiguità cosa succede se non li rispetti?”.
L’accoglienza è nei dettagli
Così abbiamo scovato dove soprattutto si annida e alligna il tono di voce del “prefetto interiore”:
- Nei verbi paternalistici e concessivi: consentire, permettere, mettere in grado, riconoscere, ammettere, rilasciare.
Se si sposta il punto di vista dall’ateneo alla studentessa o allo studente, cambia tutto:
L’offerta didattica dell’Università consente a studentesse e studenti di seguire la propria vocazione e i propri interessi culturali e disciplinari.
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All’interno dell’offerta didattica dell’Università, studentesse e studenti possono seguire la propria vocazione e i propri interessi culturali e disciplinari.
L’Università riconosce il diritto degli studenti di individuare liberamente gli argomenti sui quali svolgere la prova finale o la tesi di laurea secondo le loro inclinazioni e i loro interessi.
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Gli studenti hanno il diritto di individuare liberamente gli argomenti sui quali svolgere la prova finale o la tesi di laurea secondo le loro inclinazioni e i loro interessi.
Dopo l’immatricolazione allo studente sono rilasciati il badge e l’indirizzo email istituzionale.
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Dopo l’immatricolazione lo studente riceve il badge e l’indirizzo email istituzionale.
- Le conseguenze negative riassunte lapidarmente in un inciso spesso oscuro: pena la nullità, pena la decadenza, pena l’esclusione. Meglio una frase a sé, anche più lunga, ma chiara:
Chi non invia la domanda online o la invia in ritardo è escluso dalla selezione.
Se non si danno esami per un dato periodo di tempo, la carriera universitaria si interrompe.
- Le espressioni pseudotecniche per le quali c’è sempre un’alternativa precisa nel linguaggio di tutti i giorni: fermo restando, fatto salvo, subordinatamente a:
Fermo restando il limite non superabile di 150 ore in un anno accademico
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Non è comunque possibile superare le 150 ore in un anno accademico
Salvo specifiche disposizioni previste dall’avviso di selezione
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A meno che l’avviso di selezione indichi diversamente.
L’iscrizione a un corso di studio ad accesso programmato è subordinata al superamento di un’apposita selezione.
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Per iscriversi a un corso di studio ad accesso programmato si deve superare la selezione.
- Le espressioni inutilmente pesanti o negative:
sono oneri a carico dello studente … > lo studente deve pagare …
in difetto di … > se non si ha …
richiesta di identificazione > dimostrare la propria identità
impartire istruzioni > dare indicazioni
posizioni debitorie > tasse ancora da pagare
Qualunque sia il contesto o il mercato, per aggirare tutte queste piccole trappole basta quasi sempre scrivere dal punto di vista di chi ci leggerà: la studentessa, il docente, la cliente, il collega, l’associato, la volontaria. E farne il soggetto dei nostri testi: soggetto chiama verbo e insieme sono un formidabile accorciatore di distanze perché chi legge ci si rispecchia immediatamente. “Parlano a me! Sono io!” invece che girarsi a vedere se per caso nella stanza c’è qualcun altro.
Un altro post utile sui testi regolatori:
Troppo succulento il tuo post perché lasciassi passare troppo tempo per commentarlo.
Se il burocratichese è già di per sé urticante, lo diventa ancora di più nei casi in cui riguarda gli atenei, che dovrebbero facilitare l’esistenza degli studenti e non complicarla. Nelle formule che tu hai citato a titolo esemplificativo si scorge la volontà di un vassallaggio linguistico, in cui c’è una parte che predomina sull’altra.
Per non dire di come si sudi freddo quando tocca decriptare le norme per presentare la domanda di tesi e pagare le relative tasse. Le incombenze procedurali, maggiorate da quelle amministrative, rendono ancora più gravoso l’ultimo tratto, tutto in salita, prima di conseguire la laurea.
Chissà, forse è l’ultimo test che gli studenti devono superare per diventare dottori!
Vero, Marinella, ma confido che le cose migliorino rapidamente.
Ho fatto tanti laboratori con persone intelligenti, motivate, apertissime all’innovazione, che stanno riscrivendo i documenti in modo radicale e coraggioso.
Poi, come in tutte le organizzazioni gerarchiche e strutturate, ci vuole del tempo, ma sono convinta che ne vedremo i frutti!
Purtroppo è proprio così: le università sono ancora troppo legate a un certo tipo di modo di scrivere, come se questo facesse di loro soggetti più autorevoli.
Finché questo vezzo rimarrà tipico di fin troppi professori (una volta mi capitò di sentire «dobbiamo farci idealmente un’idea»), penso sarà difficile arrivare al cambiamento.
Siamo fiduciosi, dai. 😉
Più che universitas penserei (anche) a multiversitas…
Condivido volentieri il vostro “think pink” perché il disfattismo non conduce lontano.
Ogni volta che leggo una comunicazione ufficiale di enti o amministrazioni mi piace pensare che ci sia stata la tua mano, a illuminare le menti, cara Luisa.
Buona giornata a tutti