Nei primi giorni del nuovo anno ho completato un profondo decluttering (repulisti per chi si urta facilmente se mi scappano troppe parole straniere) di tutta la casa, e soprattutto delle migliaia di libri che la affollano. Riprendere i libri in mano, uno per uno, e deciderne il destino è ripercorrere la propria vita, ma l’ho fatto alla ricerca di leggerezza e quindi senza malinconie. Ne sono partiti parecchi, anche verso il cassonetto della carta: ho infatti scoperto che moltissimi non li vuole più nessuno, nemmeno se li regali. “Hanno il bordo giallo?” è stata la domanda ricorrente. Il bordo giallo è la sentenza di morte e, sì, molti avevano il bordo giallo, quindi sono carta straccia. Via!
L’altra sentenza di morte, decretata da me, sono stati i caratteri piccoli. Non siamo più abituati ai caratteri microscopici, ci respingono ad apertura di pagina: ho capito che nessuno li avrebbe più letti, nemmeno io che non sono più occhialuta e ho recuperato la vista di un’aquila. Via!
Almeno un quinto dei miei libri sono in lingue diverse dall’italiano e ancora una volta mi è stato chiaro quanto il mio interesse – professionale e non – per il linguaggio e le parole sia stato determinato dallo studio di altre lingue: la distanza e i confronti mi hanno fatto convergere sulla mia lingua madre, che nella consapevolezza è arrivata dopo le altre. Nel tempo ho sempre sentito il bisogno di coltivare la distanza un po’ straniante tra l’italiano e altre lingue, anche nella mia quotidianità di lavoro. Questo avviene soprattutto con l’inglese, che non mi fa impazzire, ma che professionalmente è la lingua che frequento di più. Ne ho anche scritto qui: Scrivere, alla ricerca di straniamenti linguistici.
Proprio mentre riflettevo su queste cose, tutta impolverata ai piedi delle mie librerie, mi sono imbattuta nell’ultimo libro di Jhumpa Lahiri, Racconti romani.
La scrittrice statunitense di famiglia bengalese, premio Pulitzer a 32 anni e autrice di romanzi e racconti meravigliosi, da quasi dieci anni ha scelto di vivere lunghi periodi nella mia città e di imparare la mia, la nostra lingua. Appena arrivata, sul settimanale Internazionale ha raccontato il suo studio, la sua conquista e il suo amore per l’italiano. Nel 2016 scrive in italiano In altre parole, storia del suo “colpo di fulmine”, e ora questi racconti in cui riconosco strade, angoli e persino singoli edifici e scalinate della mia città.

Jhumpa Lahiri ora l’italiano lo padroneggia meravigliosamente, nel lessico e nel ritmo, ma deve comunque colmare una distanza verso una lingua che non è la sua. Da questa distanza scaturiscono un lessico sorprendente, seppur sempre appropriato, e immagini di una freschezza che definirei “neonata” per quanto è tenera e profumata.
“… le scale mobili che mangiano le gambe…”
“… la sciarpa era lì, riposava morbida come una grande sfoglia di pasta fresca sopra lo schienale di una sedia…”
“… sarebbe stato un incontro sfolgorante di qualche ora sempre arginato da un anno di separazione…”
“Qua e là l’orlo della tenda si era staccato dal bordo e aveva formato una specie di occhio vuoto che conteneva il cielo, e ogni tanto, scombussolato dal vento, anche quel nulla si sollevava.”
“Dai tetti quadrati spuntano antenne satellitari e canne fumarie con i loro pennacchi impetuosi. Alberi con chiome piatte costeggiano il fiume sinuoso; gru rosse si protendono come passerelle verso il nulla… gli edifici sembrano fatti di fumo, l’atmosfera è grigiastra, con qualche stella che indugia. A quell’ora due cupole – identiche – sono ancora illuminate e le forme delle montagne sembrano onde enormi che sorgono dall’oceano durante una tempesta.”
Sto finendo i racconti, ma per il nuovo anno ho già augurato a me stessa di riuscire a rimettere tra me e le parole di tutti i giorni la distanza giusta per riassaporarle come si fa con quello che si scopre in una terra o in una lingua straniera.
Far vibrare dentro di sé un suono mai sentito prima.
Assaggiare la parola per sentirne il peso e il profumo.
Appuntarla sola soletta per squadrarla meglio da ogni lato.
Avventurarsi in accostamenti e combinazioni che non hanno il sapore di sempre.
Su questo blog, leggi anche:
Al di sopra delle lingue, qualche bella scoperta
Il museo sentimentale dei libri
E per conoscere Jhumpa Lahiri dalla sua viva voce:
Scegliendo cosa salvare tra i libri di una persona che non c’era più, il ragazzo che mi ha aiutato e che aveva lavorato in un negozio di libri usati, aveva definito una pila “quelli che diventeranno altri libri”. Al mio sguardo perplesso mi ha ricordato che il macero trasforma la carta in nuova carta, per cui quei libri sarebbero diventati altri libri. Mi è servito a lasciarli andare con uno spirito più leggero.
Vero, Antonella, molto bello e consolante pensare ai libri così 🙂
Luisa
Bello fare accostamenti inusuali e dare nuovo vigore a parole un po’ trite. Io ho trovato di grande giovamento fare scrittura creativa: da questo punto di vista ti apre la mente e ti dà il coraggio che spesso a lavoro non hai o non puoi avere.
E per prendersi un po’ di libertà c’è anche il caviardage https://tinafesta.wordpress.com/2011/01/27/il-caviardage-cercare-la-poesia-nascosta/
Ciao Luisa buon anno!
Grazie per la segnalazione, di cui approfitterò subito. Avevo già visto, con molta attenzione, diverse video-interviste di Lahiri, proprio perché la fascinazione che aveva espresso per la nostra lingua mi aveva colpito in un modo particolare. In verità, ogni volta che una persona di un’altra nazionalità esprime affezione per l’italiano (e stavo per scriverlo in maiuscolo, all’inglese), sento una specie di lusinghiero orgoglio, quasi come se un po’ di quel fascino espresso dalla nostra lingua mi ricadesse addosso. Non è tanto un’istanza patriottica, o tifosa, quanto un riconoscimento gratificante per un’eredità condivisa. Immagino che anche a lei sia capitato di provare un sentimento del genere quando un’ autor’ (non mi piace l’asterisco, ma condivido l’istanza di non generalizzare il genere) riesce a costruire un’immagine mirabile, usando in modo mirabile e originale, le parole che la propria lingua gli/le mette a disposizione.
QUalche tempo fa ho traslocato due volte in 4 anni, dopo 22 anni nella stessa casa; ho chiuso lo studio professionale di mio padre, zeppo di libri, e casa di mia nonna, anche quella pienissima. Libri da collezione di mio nonno e i banalissimi club degli editori. E allora, per non mandarli al macero, mi caricavo le braccia e li lasciavo sulle panchine di una grande area verde, un’isola pedonale, davanti a due licei e al Politecnico di Torino. Speravo così che qualcuno li prendesse….
Certo, Laura! Il caviardage è uno splendido esercizio per “isolare” le parole dal contesto abituale, un grande strumento di straniamento. Buon anno anche a te! Luisa
Quando ho sbattuto su “decluttering” nella PRIMA riga stavo per smettere di leggere. Se vuoi te lo giuro. 😉 Buon anno, Luisa.
Questo post mi ha fatto pensare a Murakami quando ha cominciato a scrivere i suoi romanzi. Racconta che scrivere in inglese gli ha permesso di acquisire un ritmo di narrazione tipicamente suo che poi aveva trasportato nella sua lingua, facendo emergere quello che sarà il suo stile (che io tanto amo).
A un certo punto, ogni tanto, bisogna farlo, il decluttering.
Non sapevo neanche che esistesse questa parola, ma l’ho fatto anche io, senza rimpianti e con grande beneficio.
Provo a pensare che molti libri abbandonati rinascano a nuova vita agli occhi di altre persone.
Così anche io ho frugato con piacere in vecchie librerie, scoprendo veri gioielli.
Prometto di impegnarmi a sfollare le librerie di casa dai titoli che le occupano. Un libro non è solo lo spazio fisico che occupa su una mensola, ma il mondo in cui lo scrittore ci trasferisce. Tutti questi mondi che ruotano però rischiano di diventare troppi!
A proposito delle parole, spesso mi capita di stupirmi per come cambino d’abito nei vari contesti. Quelle più magnetiche per me sono quelle che incontro leggendo di medicina. Percorro nuovi vicoli semantici, con alcune parole come parossistico, piramidale, tonaca, aderenza, finestra, o mi lascio stregare dalla misteriosa avvolgenza di altre come prosopagnosia o diseritropoietica.
Continuerò a divertirmi con le parole, che abbraccerò nella loro ampiezza semantica, e le rispetterò tutte senza pregiudizi.
Grazie sempre, Luisa, perché ogni volta aggiungi qualcosa di bello e utile. Grazie pure perché ogni parola che diventa tessuto scritto mi racconta di quanto la ami e coccoli, e con quanta cura hai scelto lei, proprio lei e nessun altra.
Saluti a tutti
Marinella Simioli
Bellissimo post e soprattutto emozionanti le parole di Jhumpa Lahiri.
Ti fanno capire come dovremmo recuperare l’amore per la nostra lingua e soprattutto la capacità di scegliere le parole giuste.
Quando poi alla fine parla dello “stretto necessario” mi viene in mente la canzone de “Il libro della Jungla” con lo “stretto indispensabile” ma soprattutto la grande regola che la sintesi è più difficile ma più efficace della prolissità.
Grazie Lucia!
Cara Luisa,
che bello il tuo post. E sì, “Racconti romani” è meraviglioso!
Le mie citazioni preferite: “A P. piaceva riempire la casa e mantecare amici, parenti, vicini di casa, genitori dei compagni di classe dei suoi figli” (p. 42);
“La madre procede, seguendo un lungo muro coperto di gelsomino brunito che non sa più di niente” (p. 108).
È bellissimo vedere la propria lingua con occhi nuovi!