Bartleby è la rubrica dell’Economist su management e mondo del lavoro. Due numeri fa se la prendeva con tre o quattro parole talmente logore da risultare sempre più spesso svuotate di senso. Il settimanale di politica ed economia più importante ( e meglio scritto) del mondo lo ha fatto da par suo, con un titolo e un sottotitolo leggeri e scherzosi, impossibili da ignorare:
Le parole più fumose del business
Innovazione. Sostenibilità. Finalità. Puah
Comincia così:
La schiuma antincendio affama le fiamme dell’ossigeno. Una manciata di parole abusate riesce ad avere lo stesso effetto, cioè smorzare la capacità di pensare. Sono parole come “innovazione”, “collaborazione”, “flessibilità”, “finalità” “sostenibilità”. Ammantano i siti web dei consulenti, rendono i CV tutti uguali e sprizzano dalle bocche dei manager.
Sono anodini al punto da essere inutili.
Queste parole sono ovunque anche perché sono difficili da controargomentare. Chi vuole davvero essere la persona che sostiene i compartimenti stagni in azienda? Quale manager brama segretamente di essere il capo dipartimento della stagnazione? È forse possibile avere come obiettivo l’inutilità?
Proprio come il filosofo Karl Popper fece della falsificabilità il test per verificare se una teoria potesse essere definita scientifica, l’antonimia è un buon modo per capire se un’idea è valida. Se il suo contrario non è consigliabile, allora è molto probabile che la parola sia troppo fumosa per essere utile.
La fumosità è nemica dell’accuratezza oltre che dell’utilità. Una parola come “sostenibilità” è così sfuocata che viene utilizzata per qualificare praticamente tutto, da un’azienda che pensa saggiamente sul lungo termine fino alla fine del capitalismo. Persino questo articolo può essere considerato sostenibile perché propone (ricicla) sempre le stesse idee. La mancanza di precisione è l’anticamera di protagonismo e greenwashing.”
E conclude:
“Questo è un appello ai manager perché usino queste parole con consapevolezza e intenzione. Non significa farne sempre a meno. Non se ne andranno, ma non devono soffocare la nostra capacità di pensare.”
Quando consiglio di non infarcire i testi aziendali con queste parole, di solito mi viene chiesto “Allora, quali sinonimi possiamo usare? Quali termini al posto di questi?”
Niente sostituzioni. Basta chiedersi “Come?”, “Perché?”
Come siamo sostenibili?
Come collaboriamo?
Perché ci siamo dati questo obiettivo?
Come cerchiamo di raggiungerlo?
Quale innovazione, e come?
Cerchiamo le risposte, formuliamole, e a quel punto probabilmente la parola fumosa ci sembrerà inutile.
La precisione dell’Economist è proverbiale, e il loro linguaggio la rispecchia. Anni fa, per farla mia, tradussi l’introduzione della loro celeberrima Style Guide. Se invece volete assaggiare l’acribìa dei loro copyeditor, scorrete il loro account Twitter. Non è aggiornato da anni, ma i 2196 tweet sono un vero tesoro per chi scrive nel mondo del business.
Sempre grata alla Vita che lei esiste e che condivide con noi le sue “perle”.
Grazie, Stefania, ma sono le perle dell’Economist. Io le ho solo raccolte 🙂
La ringrazio per queste riflessioni sui contenuti e sulla qualità della comunicazione anche aziendale, quando si avvale di un linguaggio che fa leva su termini inconsistenti, termini ai quali in numerose realtà si è ricorso, ad esempio ma non solo, al fine di creare o alimentare una identità condivisa.
A mio parere non è infrequente una limitata consapevolezza di tale inconsistenza, ciò da cui possono derivare scelte controproducenti rispetto agli obiettivi dichiarati o rispetto agli obiettivi perseguiti dal singolo, o prese di posizione indiscutibili, intrise da un’aura di sacralità, impiantate su un terreno che questa vacuità lessicale già nel medio termine contribuisce a rendere idoneo proprio in quanto non più fertile.
Lottare contro il pressappochismo tramite cui tali etichette possono essere declinate, argomentando la propria tesi, mi sembra un agire responsabile e generoso.
Grazie, Roberto 🙂
Il problema con le parole è che diventano dei cliché senza significato. Basta ripeterle in continuazione senza pensarci, senza dire perché fino a svuotarli come una ombra senza contenuto ne forma. Le parole sono dei contenitore da riempire di vita.
Come non essere d’accordo con l’Economist con il fastidio che provoca l’uso di alcune parole ormai stantie! Nomi spesso in coppia con aggettivi così scontati da far inserire il pilota automatico al cervello del lettore.
Una attuale, per me urticante, è “narrazione”, che rigurgita a ogni piè sospinto. Mi capita di lasciarmene distrarre così tanto da perdermi spesso le parole che seguono.
Alla fine mi pongo una domanda, dopo aver letto il tuo post, cara Luisa, e te la giro. Se per evitare le parole fruste ricorriamo ai sinonimi può capitare che pure questi si usurino. Quali parole del nostro vocabolario sopravviveranno, allora?
Saluti a tutti
Marinella Simioli