Antichi amori, nuovi amori
Il mio amore per il design è di vecchia data, da quando incontrai il Bauhaus nell’esame di storia dell’arte contemporanea all’università. Mi riconoscevo in quel lavorare sulle forme più essenziali per ottenere chiarezza, fluidità, funzione. Obiettivi cui mi sono sempre ispirata anche nella scrittura professionale, per me e per i miei clienti. Poi, negli ultimi anni, è stata tutta una lunga marcia di avvicinamento.
Ho cominciato a partecipare ai Summit di Architecta, un anno persino con un intervento e un altro con una piccola introduzione. Ho seguito corsi di Design Thinking, il metodo partecipativo per risolvere problemi e innovare in modo creativo. Insieme alle mie tre amiche Digger (Maria Cristina Lavazza, Roberta Buzzacchino e Marzia Bianchi) abbiamo creato Designer in Gioco (DiG per noi), che sta facendo una bella strada. L’estate scorsa ho affiancato Maria Cristina nella bellissima esperienza siciliana di innovazione sociale del LURT.
Alla ricerca dell’occasione perfetta
Mi viene quindi ora abbastanza naturale usare gli strumenti del DT sia quando progetto e scrivo, sia quando insegno. Ma si è sempre trattato di usi episodici, per quanto riusciti e utili. Eppure, il payoff di Designer in Gioco è “In tutti i mestieri c’è il design. Nel design ci sono tutti i mestieri.” Sotto sotto cercavo un’occasione per affrontare un progetto interamente con il DT, dall’inizio alla fine, e provare prima di tutto a me stessa, che sì, il metodo elaborato dalla d.school di Stanford funziona anche con la materia semplice e complicata delle parole. “Funziona”, cioè permette di arrivare in tempi brevi al risultato sia con la competenza della docente, sia con l’apporto di informazioni, idee ed energia del gruppo.
Così, quando l’APT della Val di Sole mi ha chiesto un intervento formativo sulla scrittura dedicato a chi offre ai turisti un’esperienza durante la vacanza trentina, pensarla in termini di DT mi è venuto del tutto naturale. Fase per fase.
Definire la sfida
Nel DT la sfida è l’obiettivo da raggiungere con il progetto. Si dice “definire” non a caso: quell’obiettivo bisogna prima scriverlo, trovare le parole più precise, limarlo, condividerlo, averlo sempre presente. Il nostro è stato:
Far immaginare ed emozionare con le sole parole
In “immaginare ed emozionare” c’è già il potenziale cliente, con tutte le scarpe.
Il potere degli straniamenti
Uno degli strumenti più utili del DT è il ricorso agli “estremi”, cioè guardare al nostro problema, alla nostra sfida, attraverso un progetto, un’esperienza, un settore di mercato che ha qualcosa in comune con il nostro, ma allo stesso tempo ne è lontanissimo. Per esempio: riorganizzare pasti e mensa in un ospedale analizzando un ristorante pluristellato.
Il nostro estremo mi è apparso perfetto, ma anche terribilmente audace e un tantinello rischioso: prendere come esempi grandi della letteratura e del giornalismo. Funzionerà? mi sono chiesta. Le persone saranno super in gamba, entusiaste ed esperte, ma non scrivono né comunicano per mestiere. Fanno le guide alpine, hanno aperto una Spa nel loro hotel, hanno un centro di rafting o di e-bike. Posso cominciare propinando loro Thomas Mann? Spoiler: alla fine ho propinato pure Thomas Mann.
La “mia” immersione
La prima fase di un progetto di DT è quella di “immersione” nelle informazioni e nei dati, nello “scenario” dicono quelli bravi. Per me è stata prima di tutto un’immersione letteraria in cui ho sguazzato con gusto immenso. Ho scelto dieci brani con i criteri della brevità (mezza pagina abbondante, non di più), dell’autonomia (anche estrapolati, dovevano avere un senso), della varietà (dall’800 ai contemporanei, da classici della letteratura a rapper e influencer, dallo sport alla gastronomia), dell’emozione che suscitavano (anche se le emozioni di base non sono tante, ci sono mille sfumature).
I brani sono confluiti nel workbook, ciascuno con una brevissima introduzione e una serie di mie domande-guida per ricercare “quello che funziona per fare immaginare ed emozionare con le sole parole”.
Mentre rileggevo, sceglievo e scartavo, ho scritto un post su LinkedIn. Dopo aver visto, sbalordita, l’interesse che suscitava, ho capito di essere sulla buona strada.

Così ho impacchettato il “kit da designer”, come lo chiama Maria Cristina, nel mio caso dizionari inclusi:

Dal trenino all’aula
Avrei potuto anche fare tutto dietro lo schermo, allestendo un laboratorio su Miro. Mi sarei risparmiata quasi due giorni di viaggio, ma una cosa così ho – anzi abbiamo – voluto farla assolutamente in presenza. A fine marzo, dopo aver riassaporato la meraviglia di lavorare insieme a persone in carne ed ossa e averla vissuta come una festa, mi ero detta: “Online solo, ma solo, se non se ne può fare a meno”.
Non mi sarei neanche goduta quell’ora e mezza di stupore in cui il trenino si arrampica silenzioso tra boschi, ruscelli e gli infiniti meleti da Trento a Malé, primo assaggio di esperienze trentine wow.

Fase 1. Rito liberatorio iniziale
Guidati dal saggio Seth Godin – “cancella ogni parola o espressione che potrebbe essere stata scritta da qualcun altro” –, abbiamo creato la Black List, che abbiamo alimentato fino alla fine, man mano che venivano in mente altre frasi fatte. Ci siamo solennemente impegnati a non usarle mai, per nessun motivo.

Fase 2. La “loro” immersione
Pescando in un sacchetto il nome di un autore, abbiamo formato i gruppi. Ogni gruppo ha esaminato un brano diverso, con la guida delle domande, e discusso su cosa piacesse particolarmente, quale emozione suscitasse, cosa facesse vedere e sentire, e soprattutto come.

Quando abbiamo cominciato il giro e ogni gruppo ha raccontato agli altri come avesse vissuto la lettura, ho capito la forza di quell’estremo così alto. Mentre i gruppi raccontavano, io scrivevo le “microlezioni” sui post-it. “Scrivevo” nel senso che mi limitavo a commentare e sintetizzavo quello che affiorava dai gruppi. Per esempio:
- il pasticcio di maccheroncini del Gattopardo e la terrina russa dei Buddenbrook: lezioni di estremo dettaglio
- le salite sull’Appennino di Jovanotti: lezioni di accostamenti e metafore audaci
- l’aranceto siciliano di Ercole Patti: modello per i meleti della Val di Non
- i viaggi del fisico Carlo Rovelli: lezioni di ripetizioni e riecheggiamenti efficaci
- Gomorra di Roberto Saviano: lezione di frasi che inchiodano e fanno fermare
- le notti nella savana di Walter Bonatti: lezioni di sinestesie e onomatopee
- un libro di Csaba Dalla Zorza: lezione di pacatezza, lentezza, intimità
- le montagne di Paolo Cognetti: lezioni di sfumature e potenza dei contrasti
- il mare di Fosco Maraini: lezione di aggettivazione e personificazione della natura.
Poi abbiamo raggruppato per temi tutte le microlezioni e le abbiamo appese per riguardarle e ispirarci:



Fase 3. Guardare con gli occhi degli altri
Per raccontare in modo nuovo è necessario prima vedere in modo nuovo. Vedere aspetti inediti di ciò che conosciamo fin troppo bene, immaginare cosa si aspettano i turisti, quali sono le loro caratteristiche, i loro pregiudizi, i loro entusiasmi, le loro paure.
Così, a due a due, come in confessionale, le persone si sono intervistate a vicenda, aiutate all’inizio da una serie di domande guida che avevo preparato io per loro, poi lasciandosi andare alle loro curiosità, ma scandagliando ben bene l’esperienza che avrebbero proposto sulle pagine del portale della valle. Chi intervistava prendeva appunti chiari, che ha poi restituito alla persona intervistata, che così ha avuto il suo racconto visto “con altri occhi”.
Uno dei tratti del DT che più amo è la “scomposizione”, quella che si attua con i post-it, in cui si fa “a fettine” un tema, un problema. Significa non accontentarsi di quello che si sa e si vede, chiedersi continuamente “perché” e “come”. Rispondere su un altro post-it e ricominciare. Farlo in tanti è un tirar fuori una quantità stupefacente di conoscenze e curiosità che c’erano, ma non riuscivamo a vedere. Quando sono tante e sotto gli occhi di tutti, si riordinano in cluster tematici, da cui affiorano collegamenti, connessioni, idee innovative.

Fase 4. Sfrenatezze lessicali
Dal racconto-intervista della sua esperienza, ogni partecipante ha tratto una o due parole chiave, a partire dalle quali ha creato le sue mappe di parole à gogo: venti minuti di associazioni pure. Come viene viene, senza pensare minimamente all’uso che poi se ne farà. All’inizio pare una cosa da matti, poi le parole cominciano a “sgorgare” e sembra che non ti fermi più. Alla fine ti ritrovi una massa di parole utili, di tutti i tipi, e anche qualche germoglio di bella metafora. Una cosa molto ma molto incoraggiante. È una tecnica che io uso spesso e che descrivo nel mio libro Struttura & Sintassi.
Praticamente, si fa con le parole quello che prima abbiamo fatto con le microlezioni.



Fase 5. Scegliere e concentrare in un titolo che brilla
A cosa serve tanta abbondanza? A scegliere. È la fase che in Designer in Gioco abbiamo chiamato “Lasciar emergere le idee”. Ogni persona ora ha le microlezioni appese al muro, la propria esperienza scandagliata e vista con gli occhi degli altri, un magazzino di parole e anche quelle della black list.
La fase della divergenza, dell’abbondanza, è finita. Comincia quella della convergenza. Nel nostro caso, verso un titolo che concentri l’esperienza in pochissime parole, come un payoff: breve, informativo, evocativo, bello, invitante.
Anche i tempi si stringono: solo 20 minuti per produrre uno o più titoli. Un altro vincolo che mobilita la creatività.
Si testano i titoli di tutti, alla prova del format e del target specifico di quell’esperienza. Si legge ad alta voce, io commento, suggerisco, taglio, spiego. Tutti imparano da tutti e c’è chi cambia in corsa il proprio titolo sulla base di quello che sta ascoltando.
Fase 6. Costruiamo i prototipi… ooops i testi!
Dopo una notte in cui abbiamo mandato a riposare anche il tripudio testuale del giorno prima, eccoci belli pronti a costruire i testi, ciascuno il proprio. Un’ora scarsa di tempo, in cui vedo tutti scrivere rapidamente, far fiorire i testi sul terreno concimatissimo del giorno prima.
La prototipazione è la fase finale, fondamentale del DT. Si costruisce un prototipo con materiali semplici, alla buona, per averne subito un’idea e correggere quello che non funziona prima di infilarsi in vicoli ciechi o fare investimenti sbagliati, all’insegna del “Fail fast, fail better!”. Se volete averne un’idea, c’è questo post di Maria Cristina sul Business Origami.
Con le parole è stato molto facile: a correggere, migliorare, spostare, togliere o sostituire ci vuole un attimo e alla fine i prototipi erano veramente molto vicini al prodotto finale.
Mentre leggevamo, commentavamo e testavamo funzionalità, suoni, precisione, abbiamo attraversato torrenti impetuosi, costeggiato laghetti, ascoltato cervi nella notte, guardato il tramonto sorseggiando in malga un vino corposo, visitato forti della Grande Guerra. Per poi camminare a piedi nudi nella neve, scivolare nelle acque termali di una Spa, farci massaggiare con creme di erbe alpine. Oppure sveglia all’alba, a inseguire nel silenzio le tracce degli abitanti di un bosco.
Insieme, abbiamo immaginato, visto, sentito e toccato con le sole parole. Senza mai pronunciare la parola “emozione”. Dal rito iniziale liberatorio erano passate solo 28 ore.
Un grande grazie a tutte le splendide persone che hanno vissuto con me questa breve ma intensissima avventura. E all’APT della Val di Sole, che mi ha dato il permesso di condividerla.
Se il tema della scrittura per il turismo vi interessa, ecco le slide di due miei interventi:
Le parole portano lontano, Be-Wizard 2017
Oltre l’alberghese, Hospitality Day 2019
Bellissima e utilissima lezione Luisa.
Lei non lo sa, ma con quella lezione del Be-Wizard nel 2017 scoperchiò per me l’inizio di un modo nuovo di scrivere. Dopo tanti anni passati a creare testi per gli hotel che mi sembravano sempre uguali e aridi, capii che poteva esserci un modo diverso di esprimersi.
E mi creda se dico che scrivere testi per il turismo e per gli alberghi, è davvero una sfida senza paragoni, perché il rischio di cadere nel visto e rivisto e nei cliché è a livelli altissimi.
I testi che ho scritto dopo sono stati diversi, non so se ottimali, ma di certo migliori!
Ne sono felice, Margherita!
Non è poi così difficile, ma bisogna cambiare il punto di vista. In realtà, è tutto lì.
E che bello il verbo “scoperchiare”!
Grazie ancora una volta, cara Luisa, per averci dettagliato le fasi della tua ultima opera professionale. Non è per niente facile riassumere le fasi di una impresa che ha coinvolto le meningi di così tante persone.
Due cose tra le tante mi hanno colpito nella tua minuziosa descrizione. La prima è l’idea di mischiare generi apparentemente distanti e shakerarli per farne un testo vellutato e stuzzicante. La seconda è il tuo produttivo metodo di usare carta, penne e pennarelli. Scrivere a mano riattiva facoltà che la tastiera ci sta facendo perdere. Mi accorgo sempre più spesso di quanto mi stia disabituando a scrivere a mano e di come il mio pensiero si adatti, trasformandosi… non sempre in meglio!
I partecipanti avranno appreso divertendosi. A loro rimarrà ben più di ciò che hanno imparato durante i tuoi incontri. Conserveranno un rinnovato habitus mentale, prezioso nella creazione di testi fragranti e rinnovati.