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risali negli anni

21 Febbraio 2022

La mente è una gazza ladra

Quando ho finito di leggere The Extended Mind di Annie Murphy Paul mi è stato chiaro cosa ha rappresentato e rappresenta per me questo blog da ben diciannove anni: un’estensione indispensabile della mia mente, un gigantesco e costante offloading di tutto quello che leggo, rimugino, osservo, connetto, imparo.

Murphy Paul è una giornalista e divulgatrice scientifica che studia e racconta i meccanismi della mente e dell’apprendimento sulle maggiori testate del mondo, dal New York Times a Nature, e in un Ted Talk da tre milioni di visualizzazioni. In questo libro fa un’operazione grandiosa, utilissima in un periodo in cui le persone e le organizzazioni sono alla ricerca di un nuovo equilibrio dopo lo scossone pandemico: riorganizza i risultati delle ricerche sul funzionamento della mente (ricerche recentissime: le note occupano quasi la metà del libro), ci offre una nuova metafora e ci apre strade che possiamo percorrere tutte e tutti nella vita, nel lavoro, nella scuola.

Il cervello non è un computer che possiamo riempire di dati à gogo.

Non è nemmeno un muscolo che possiamo tendere all’infinito, che più esercitiamo, meglio performa. È fantastico, ma ha i suoi limiti. Più che spingerlo fino all’esaurimento, incollate alla sedia e allo schermo, meglio espanderlo nella varietà e ricchezza del mondo fisico, pronto ad accogliere i nostri pensieri nella vastità dei suoi spazi.

“When thought overwhelms the mind, the mind uses the world.”

Il cervello è piuttosto una gazza ladra.

La gazza costruisce il suo nido prendendo dal mondo tutto quello che le serve, anche oggetti e rametti, e li intreccia in un tessuto forte e compatto. La complessità del mondo di oggi ci chiede di pensare anche “fuori dal cervello”, di tessere i pensieri con altre cose, possibilmente concrete. Ma fuori dove?

Nel corpo, coltivando la sua intelligenza e la nostra capacità di coglierne i segnali nei movimenti e nelle emozioni.

Negli spazi, naturali o progettati per farci pensare meglio.

Con le altre persone − collaboratori, insegnanti, amiche, compagne di classe − imitandole, discutendo con loro, prendendocene cura, raccontandoci storie.

Il libro mi ha affascinata, soprattutto perché unisce il rigore e la documentazione della ricerca con una capacità di racconto di straordinaria chiarezza, anche se è un libro ponderoso e di struttura tradizionale, senza riassuntini, manifesti, schede e altre scorciatoie.

Lo metto tra i libri “decisivi”, insieme a quelli di Annamaria Testa, Roy Peter Clark, Steven Pinker, Maryanne Wolf, anche se non parla di scrittura né di lettura. Parla di noi umani e di come potremmo vivere, lavorare, imparare meglio se solo ci conoscessimo un po’ di più.

Ecco quello che ne ho tratto di utile per la mia vita e il mio lavoro:

Mi ha fatto capire perché la sedia è nemica del buon pensare e mi ha liberata in un colpo solo dei tanti sensi di colpa che mi assalgono quando mi stufo ed esco per camminare all’aperto o per nuotare in piscina. Ora lo faccio con leggerezza: senza resistenze, il pensiero gode dell’attenzione fluttuante e non focalizzata in cui le idee nuove e le parole fresche affiorano con facilità.

Avviene, per esempio, perché camminando la nostra visione periferica, quella che ci fa cogliere dettagli importanti ma a contorno, si allena e si acuisce. Vediamo più ampio. Se poi camminiamo parlando con qualcuno, raddoppiamo lo spazio mentale: Daniel Kahneman, il citatissimo autore di Pensieri lenti e veloci, nell’introduzione del libro racconta come le lunghissime passeggiate insieme ad Amos Tversky siano state fondamentali per elaborare le teorie sul potere decisionale che valsero a entrambi il Nobel per l’economia.

Avviene perché la natura è in assoluto il luogo in cui si pensa e si lavora meglio:

  • per i colori sfumati e la luce soffusa, che favoriscono lo sguardo rilassato e passivo, più favorevole alla creatività associativa
  • per i suoni e i ritmi ripetitivi, che rallentano il tempo
  • per l’abbondanza e la varietà di informazioni visive, una manna per la nostra mente che per capire deve soprattutto mettere ordine
  • per la coerenza dei panorami, che rassicura, rispetto alla divergenza di forme di una città, che competono per la nostra attenzione.

“Time spent outdoors gives us back what the built environment so relentlessly drains away.”

I luoghi interni servono eccome, ma non solo gli spazi ampi e collaborativi come sale riunioni e open space. Anzi, se usati in esclusiva, questi rischiano di far emergere le soluzioni più condivise, che possono persino essere le più mediocri. L’ideale è l’intermittent collaboration: spazi e tempi in cui collaboriamo con gli altri intervallati da spazi e momenti di solitudine. La collaborazione continua appiattisce le idee e favorisce il conformismo. Le pause di intensa solitudine, circondati da simboli e oggetti che ci parlano di noi, favoriscono il pensiero astratto e la creatività. Qualcosa di diverso dagli spazi destrutturati, depersonalizzati e fluttuanti verso i quali molte aziende si stanno orientando.

È piuttosto il modello dello studiolo rinascimentale, come quello di Federico da Montefeltro, ma soprattutto quello del monastero, dove si studia, si mangia, si prega, si passeggia in grandi spazi comuni, ma in cui ognuno poi si ritira nello spazio piccolo e privato della sua cella. E il monastero ha un cuore fatto di natura: il chiostro.

Studiolo di Gubbio di Federico da Montefeltro: lo spazio intimo per riflettere, tra gli oggetti che più lo rappresentano.

Mi ha riconciliata con il mio gesticolare, che ho sempre considerato un difetto.
Liberi tutti: fare l’offloading dei pensieri sulle mani è uno strumento fondamentale per chiarirsi, ricordare, imparare, entrare in empatia. Un esempio tra i tanti, splendidi, che costellano il libro: quando gli studenti di psichiatria, invece che studiare i sintomi solo sui manuali, devono “mimarli” tra loro e insieme al docente, non solo li ricordano meglio, ma riescono a sentire cosa comportano per la vita dei pazienti e a provare un profondo rispetto per loro.

Le ricerche più recenti ci dicono che non sono i gesti ad accompagnare i pensieri e il discorso, ma che la gestualità è il primo linguaggio, come ci mostrano i bambini quando indicano una cosa che vogliono anche se ancora non sanno dirla. E come dimostrano gli esperimenti: a lentissima velocità, il video di una persona che parla gesticolando mostra che il gesto precede la parola, e la aiuta.

Gesticolare a più non posso, dunque? No, ma essere consapevoli dell’importanza dei gesti sì: gesticoliamo a più non posso quando siamo in difficoltà, per esempio quando non sappiamo una lingua o non conosciamo bene un argomento; man mano che studiamo e approfondiamo, la gestualità diventa più funzionale e contenuta, si armonizza con le parole. È utile osservarla negli altri, così come “progettarla” appositamente per noi.

Intanto, io ho deciso di allontanare la telecamera e di non “tagliarmi le mani” quando faccio una riunione in call o tengo un laboratorio di scrittura online. Ho uno strumento espressivo in più e mi ci affido.

Mi ha riportata verso lo spazio fisico, dopo il per certi versi comodo “rintanamento” dietro lo schermo degli ultimi due anni. Jackson Pollock, finché è stato a New York, era in perenne crisi creativa. Fu una gita a Long Island a casa di amici a convincerlo a cambiare residenza e a liberare la sua creatività: il dripping nasce nel nuovo studio, immenso e affacciato sulla natura. Nel mio piccolo, so quanto ha fatto per me decidere di dedicarmi ad attività diverse su tavoli diversi, uno per lavorare davanti allo schermo, l’altro per spargere fogli.

Jackson Pollock, Number 48.
Solo cambiando studio, più grande e nella natura, l’artista trovò sé stesso e il dripping.

“Scaricare” i pensieri nello spazio significa prenderne le distanze, avvicinarsi e allontanarsi, manipolarli meglio e, naturalmente, condividerli con estrema facilità con altre persone. Può essere un blog come questo, una parete piena di post-it, un semplice taccuino, una mappa mentale. Oppure cartone e forbici, come fece uno degli scopritori del DNA, James Watson, che ragionava con un rudimentale modello in cartone della famosa elica.

Qualunque tipo di spazio scegliamo, meglio sia grande: una parete, un foglio A3, un pavimento o uno schermo grande. O più schermi. Lo schermo piccolo è comodo on the go, ma è fatto per risucchiare tutta la nostra attenzione entro i suoi confini.

Mi ha risvegliato una insopprimibile nostalgia di aula e di presenza, nonostante in questi due anni abbia imparato come far funzionare benissimo anche un’aula online e ne abbia scoperto persino i vantaggi. Le ricerche ci dicono che pensiamo meglio con gli altri quando mangiamo e cantiamo con loro, quando ci muoviamo all’unisono, quando in un ambiente guardiamo nella stessa direzione e poi ci guardiamo tra noi. Mi sono improvvisamente ricordata di alcune mie gestualità istintive in aula, come avvicinarmi a una persona di lato e toccarle leggermente un braccio o una spalla e di quanto questo sia più efficace di mille incoraggiamenti verbali.

Mi ha confermato il valore di imitare i migliori con rispetto e intelligenza. Naturalmente bisogna farlo da artisti e non da ladri, come titola un piccolo libro di grande successo. Imitare è un modo semplice e molto sottovalutato di intrecciare i nostri pensieri con quelli degli altri, anche quelli vissuti millenni fa.

Imitare è una cosa che a noi umani viene benissimo visto che cresciamo e impariamo proprio così. Lo abbiamo fatto fino al Romanticismo, quando si è affermato il modello del genio originale e solitario. Ora se ne riscoprono i tanti vantaggi: scegliere tra prospettive e soluzioni diverse, evitare errori che altri hanno già fatto, risparmiare tempo, e anche alleggerirsi un po’ dal punto di vista mentale ed emotivo, perché almeno all’inizio possiamo procedere su percorsi tracciati.

Tutta la didattica della scrittura e della comunicazione dell’antichità si basava sull’imitazione dei maestri. Quintiliano ai suoi allievi faceva prima leggere un testo ad alta voce, poi lo faceva “manipolare” per creare intimità con i suoi meccanismi: parafrasi, traduzione, sintesi, allungamento, cambio di registro. Solo dopo queste operazioni chiedeva di scrivere un testo originale.

Si impara individuando, assaporando e analizzando esempi di buoni testi” scrive quel geniaccio di Steven Pinker.

Un metodo che uso da sempre e propongo nei miei laboratori di scrittura. Possiamo chiamarlo reverse engineering o, più alla buona, “smontaggio”. Quando incontro un testo che mi sembra riuscito, cerco di capire come è fatta quella macchinetta comunicativa che mi è tanto piaciuta. Lo metto nella mia collezione di esempi ispiratori e spesso scrivo un testo che riproduce quel meccanismo. Lo si può fare con la comunicazione dei brand che ci piacciono, ma anche con grandi maestri della letteratura, una cosa che ha fatto meravigliosamente Roy Peter Clark nel libro The art of X-ray reading.

“When we reach outside the brain with intention and skill, our thinking can be transformed. It can become as dynamic as our bodies, as airy as our spaces, as rich as our relationships, as capacious as the whole wide world.”

Annie Murphy Paul è allegra e terribilmente comunicativa. Se il libro vi incute timore, potete consultare l’indice e leggere i due primi capitoli, leggere i post sul suo blog, o guardare su Youtube una delle sue numerose interviste. Questa mi è piaciuta molto:

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15 risposte a “La mente è una gazza ladra”

  1. Grazie Luisa per questo bel post! Letto a inizio settimana ha un sapore ancora migliore.
    Faccio allora pace con il mio gesticolare e mi impegno a meglio progettarlo.

  2. Carissima Luisa, grazie per quest’illuminante blog entry. Forse conosce il volume di Barbara Tversky, Mind in Motion – How Action Shapes Thought. Se non fosse così le racconado caldamente. Distinti saluti da Budapest, sono un docente emerito di comunicazione sociale.

  3. Molto bello. Chissà se mai potranno capire tutto questo le menti delle mie giovani nipoti, tiktoktizzate a livello di dipendenza elettronica. 😢

  4. Come diceva Salvador Dalì “Chi non vuole imitare niente non produce niente”.
    Grazie per il tuo (come sempre) azzeccatissimo titolo “La mente è una gazza ladra” è coinvolgente e affascinante. Ogni volta che pubblichi un post leggo di corsa il titolo 🙂

  5. Con il tuo post, cara Luisa, ci riporti all’importanza della mente, spesso trascurata a beneficio del corpo. L’espansione di memoria, possibile con i computer, a noi non è data. Ascolterò Annie Murphy Paul e leggerò il suo libro, appena possibile, per scovare e scavare nella mia mente perché possa lavorare meglio. Il che non implica necessariamente di più.

    Grazie sempre per come rinfreschi le mie giornate con spunti di riflessione innovativi, croccanti ed extended release!
    Buona giornata a tutti

    Marinella Simioli

  6. Ciao Luisa.
    Grazie per aver ricordato qui Le vie del senso.
    E… sappi che, per quanto riguarda il gesticolare, siamo gemelle 😉
    Un abbraccio,
    Annamaria

  7. Molto interessante, mi ha fatto venire in mente un altro testo, How to take smart notes Si Sönke Ahrens, che propone strategie per adattare un vecchio metodo per prendere appunti al mondo digitale. Anche Ahrens ragiona molto sulla necessità di scaricare in uno spazio esteriore (reale o virtuale per lui fa poca differenza) i nostri pensieri per poter rendere il pensare più efficace.

  8. Ho letto il libro. Scritto bene e pieno di spunti operativi interessanti. Ho iniziato ad utilizzare un diario per il mio lavoro che uso per esternalizzare le mie riflessioni ed evitare di sovraccaricare la mia mente.
    Mi sta rivedere quello che ho scritto che subito emergono nuovi pensieri e considerazioni.

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