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risali negli anni

27 Gennaio 2020

Tradurre, o l’arte di esitare

Al diavolo il calendario editoriale! Era previsto un altro post, più tecnico sulla scrittura (ma arriva, arriva), invece la lettura di un piccolo libro in un viaggio in treno ha imposto un cambiamento di programma. Troppa la voglia di buttare giù e filtrare, in primo luogo per me, le impressioni e le considerazioni sui “dodici discorsi sulla traduzione” raccolti in L’arte di esitare.

Come gli scrittori che ricevono il premio Nobel, anche le traduttrici (nel libro su 12 sono ben 10) che ricevono l’italianissimo Premio di traduzione letteraria tengono un discorso di accettazione. E sono discorsi meravigliosi, veri regali anche per editor, copywriter, business writer e semplici lettori. Perché la traduzione è una particolarissima forma di scrittura professionale e ogni scrittrice professionale è a suo modo anche una traduttrice perché mette in comunicazione mondi diversi e diversi linguaggi.

E infatti io seguo da sempre blog e social degli “autori invisibili”, che considero parenti stretti. Leggere i discorsi delle più brave e dei più bravi mi ha fatto capire quali fili costruiscono e rafforzano la parentela.

La solitudine e la lentezza

“Le belle imprese difficili si fanno soli, in silenzio, con lentezza.”

Lo dice la traduttrice di Daniel Pennac, Yasmina Melaouah, che mi ha riportata alla necessità di staccare tutto per fare le cose per bene, ascoltare la voce dell’autore nel suo caso, le aspettative dell’utente o cliente nel mio. Anche quando le scadenze incombono, prendersi il tempo dell’esitazione per stanare la parola giusta, che ha bisogno di spazio e silenzio per fare capolino.

La paura e l’errore

“Ogni volta che si comincia un viaggio dentro un nuovo libro, il senso di avventura lascia presto il posto al panico.”

Il discorso di Franca Cavagnoli è dedicato al panico, al senso di perdita, alla paura di sbagliare che tutti proviamo quando cominciamo quella traversata del deserto che è un nuovo progetto di scrittura. Davanti a noi il nulla, che si riempirà grazie alle nostre mille piccole scelte. Ognuna esclude tutte le alternative, quello che poteva essere ma non sarà. Impossibile non sentire la vertigine.

“Nel verbo provare, però, è implicita anche l’idea di sperimentare: un procedere per tentativi ed errori, un errare nel suo doppio significato di sbagliare e di vagare senza meta.”

L’attenzione e la precisione

“Per tradurre è necessaria al massimo grado quella capacità di attenzione che per Simone Weil è un distaccarsi da sé e rientrare in se stessi così come si inspira e si espira; e che consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto”.

Così Ena Marchi descrive la qualità dell’attenzione necessaria per mettersi in sintonia con la voce dell’autore e ricostruirla nella propria lingua. Una cosa molto simile al respiro quando è libero, aperto, accogliente.

Delfina Vezzoli la riecheggia:

“… la risposta è nel testo, basta vederla. Basta pensare lo stesso pensiero, sentirne il ritmo, snocciolarne il rosario: la soluzione è lì, devi solo inventarti una lingua ‘sua’ nella tua lingua che respiri con gli stessi polmoni, seguendo le stesse pause di battiti del cuore, ed è fatta. Semplice, no? Si chiama empatia.”

Anche per noi il ritmo è una chiave. Vi capita mai di sciogliere un nodo leggendo ostinatamente ad alta voce quello che avete già scritto fino a quel momento? Il ritmo detta come continuare: per me uno dei modi migliori per uscire da un’impasse.

L’esitazione e la tenacia

Il titolo del libro si ispira alla prima frase del discorso di Susanna Basso: “L’arma del traduttore è l’esitazione”, cioè il contrario della fretta. L’esitazione del traduttore non è incertezza né indugio, ma cura:

“Il traguardo vero del traduttore esitante è un altro, è la scelta, l’elezione, l’adozione. Adotto parole, frasi, ordini verbali, li suono come so al mio strumento di esitazione.”

Quello che per Susanna Basso è esitazione, per Giorgio Amitrano è una sorta di tenacia tranquilla:

“E qui posso dare una buona notizia agli aspiranti traduttori: una soluzione c’è sempre.”

“Il più delle volte però le soluzioni non arrivano per un’intuizione improvvisa, ma grazie a una lenta manovra di avvicinamento.”

In qualche modo torniamo alla lentezza, nel ritmo dove si può sostare fiduciosi che la “soluzione c’è sempre”. Come la cera, il linguaggio è così versatile e plasmabile da assumere esattamente la forma che abbiamo in mente. Basta prendersi il tempo per ammorbidirlo.

Frequentare altre lingue per conoscere meglio la propria

“Si entra a mani nude in un testo, senza sapere nulla, e si esce dalla traduzione con qualcosa in più che abbiamo scoperto sulla nostra lingua, sulle sue insospettate risorse, sui suoi tesori nascosti.”

Ancora Melaouah, in cui mi rispecchio: ho cominciato senza nessuna idea sulla comunicazione e nessun esame di lingua italiana nel mio curriculum universitario, ma con una passione per le lingue straniere che me ne aveva fatte imparare tre già da ragazzina. È attraverso di loro che sono approdata alla consapevolezza della mia, fino a farne un mestiere. E ancora oggi, sotto la superficie del mio lavoro in italiano, continuo a muovermi tra lingue diverse, a divertirmi a tradurre un testo che funziona per riprodurne ritmo e meccanismo nella mia. Un esercizio che consiglio sempre a tutti.

Facili, evitando le trappole della banalizzazione

“Rinunciare al cosidetto traduttese, e cioè quel linguaggio medio, duttile, elegante e comunicativo che può essere utilissimo per assicurare una buona resa italiana di un romanzo di intrattenimento, ma che rischia di fare un pessimo servizio, rendendola dimenticabile, alla prosa di un grande scrittore.”

Ci ho messo una vita per capire come appianare le difficoltà ai lettori, a creare testi sui quali si vola giù come lungo uno scivolo, senza ostacoli né attriti. Quello che per i traduttori è il “traduttese” — così ben definito da Renata Colorni — per noi copy e business writer è il testo scorrevole e facile perché già visto, già sentito, già orecchiato. Non virtuosamente scorrevole, ma inesorabilmente piatto.

Anche il nostro testo deve conservare l’impronta dell’autore, che non è la nostra (anche noi siamo autrici invisibili), ma la personalità del brand, il suo tono di voce. Può essere anche una piccola traccia lessicale, un ritmo sintattico, ma riconoscibile. Inconfondibile.

Tradurre (e scrivere!) per esplorare il mondo

Chi traduce deve esplorare e impadronirsi del mondo raccontato dall’autore, riprodurlo con precisione: mestieri, oggetti, luoghi, mezzi di trasporto, abiti… Andare alla scoperta di ciò che non conosce fino a diventarne familiare. Anche noi copy e business writer, per fare un buon lavoro, ci dobbiamo immergere nella realtà del nostro cliente: visitare fabbriche, negozi, hotel, capannoni, imparare come si chiamano esattamente le cose. Ogni volta, diventare una piccola enciclopedia. Io ho imparato tanto sul caffè, il cioccolato, i tappeti, le tende, i conti correnti, le polizze assicurative perché ne ho dovuto scrivere. È il bello di affrontare settori di mercato nuovi e diversi: impareremo un sacco di cose che altrimenti mai avremmo incontrato.

“Nella lentezza del tradurre ho reimparato a guardare il mondo. Ho imparato a contemplare la vetrina di un ferramenta, a incantarmi davanti alla perfezione di un raccordo a gomito… Ho imparato la bellezza dei canaletti di scolo dei marciapiedi di Parigi, con i loro rotoli di stoffa per deviare l’acqua, dopo esserci inciampata in tanti romanzi…”

Sono solo alcune delle mille cose imparate da Yasmina Melaouah. I dodici discorsi sono tutti emozionanti, ma il suo, quello della traduttrice di Pennac, mi ha rubato il cuore e non ho resistito: l’ho letto ad alta voce e – lo confesso – pure con la voce un po’ rotta.

5 risposte a “Tradurre, o l’arte di esitare”

  1. Cara Luisa,
    il tuo post mi ha rimandato con la memoria a un corso intensivo che seguii nel 1989 al PCL, The Polytechnic of Central London (ora University of Westminster): “English for Italian Translators”, tenuto da Peter Newmark, considerato l’iniziatore della teoria della traduzione.
    A proposito di calma, lentezza e ricerca della parola, ricordo una intensa mattinata trascorsa a discutere animatamente su “alberi fasciati di bianco”, presenti in un libro di Alberto Sciascia. “Fasciati” proiettava subito file di alberi dipinti alla base del tronco, diffusi su tante strade periferiche italiane, ma il punto era: come renderlo in maniera efficace in inglese?
    Tra le numerose proposte di traduzione, nessuna sembrava in grado di conservare la potenza figurativa e la precisione semantica. Non ricordo più quale fu la soluzione giudicata migliore, so solo che il vivace scambio di idee tra i partecipanti al corso mi consegnò l’idea di una professione complicata e complessa, spesso misconosciuta e sottovalutata.
    L’invisibilità del traduttore rimane tuttora la sua forza ma anche la debolezza del suo riconoscimento sociale. Eppure si dovrebbe assegnare Marinella Similidignità autoriale a quanti riescono nella ostica impresa di preservare lo spirito dello scrittore e la complessità del suo mondo descrittivo.
    Marinella Simioli

  2. Ciao Luisa, questo libro sembra veramente una chicca. Ti scrivo come traduttrice, nel mio caso tecnica, in una grande istituzione all’estero. “Prendersi il tempo (…) per stanare la parola giusta” potrebbe diventare il mio nuovo mantra. Il nostro mestiere è bellissimo e la sua bellezza, ahimè, è
    inversamente proporzionale al tempo che ci viene concesso per stanare quella parola giusta. Nonostante ciò, questo non è il luogo per i lamenti, ma per le belle idee e gli scambi. Grazie per aver condiviso qui le tue impressioni, sempre preziose.

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