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risali negli anni

9 Ottobre 2019

Legami e distanze in un arabesco azzurro

Avevo accettato con slancio l’invito di Architecta a preparare una breve riflessione sulla parola Comunità per aprire il Summit dell’Architettura dell’Informazione che si è svolto il 4 e il 5 ottobre a Bologna. Sia perché sono affezionatissima a questo evento, cui partecipo da anni, sia perché anche noi copywriter ed editor siamo designer e io mi sono sempre considerata più progettista che creativa.

Pensavo che sarei sprofondata nelle etimologie e avrei esplorato parentele tra concetti e parole, invece sono stata folgorata da foto vecchiotte, video traballanti e la poesia di un’artista che usava soprattutto fili e stoffe. Così ho deciso che avrei raccontato una storia che mi sembrava concentrare ed esprimere l’essenza di una comunità e che mi aveva emozionata. Ho osato: il silenzio e l’attenzione che hanno accompagnato le mie parole durante nove intensi minuti, gli echi che ho percepito dopo e le consonanze che ho sentito con altri interventi mi hanno confermato che sì, in quella storia e in quei valori ci riconoscevamo tutti. È stato proprio bello. Ecco cosa ho raccontato:

Seguitemi, spostiamoci, nello spazio e nel tempo: è il 6 settembre 1981, in un piccolo paese della Sardegna, Ulassai, nel cuore della regione barbaricina dell’Ogliastra. Poco più di 1.400 abitanti che quella mattina sono tutti lì, in Piazza Barigau: donne vestite di nero, pastori e tanti bambini. Al centro della piazza li aspettano 13 rotoloni di cotone azzurro. Cominciano a srotolare, tagliano delle pezze belle lunghe, intaccano i bordi con una sforbiciata, si dispongono in cerchio. Ogni persona ne afferra un lembo e comincia ad allontanarsi dagli altri. I teli si lacerano ordinatamente in tante strisce lunghe, tanti nastri che visti dall’alto disegnano un fiore, o una stella. Man mano che finiscono, arrotolano i nastri e alla fine della giornata la catasta di rotoli di cotone azzurro arriva fino al primo piano del municipio.

Il giorno seguente, il 7 settembre, i 27 chilometri di nastri azzurri sono equamente distribuiti presso tutte le famiglie di Ulassai. L’8 settembre, festa della Vergine, ogni famiglia si connette ai vicini passando i nastri azzurri attraverso finestre, balconi, cortili, tetti e abbaini. Non è semplice. Prima di tutto perché ci sono regole precise da osservare, stabilite dagli stessi abitanti: se le famiglie non sono in buoni rapporti, basta il nastro a segnare il confine; se sono amiche, intrecciano un nodo come simbolo di amicizia; se c’è qualcosa di più, come amore o parentela, appendono al nastro dei pani decorati, appena sfornati. Devono quindi prendere decisioni importanti e fare parecchie acrobazie: ci si deve sporgere, lanciare al volo il nastro a qualcuno che si affaccia alla finestra di fronte, o aspetta nel cortile sottostante. Servono scale, e un buon equilibrio. Tutti partecipano, anche i vecchi che osservano e danno consigli, e i bambini che si divertono come matti. Man mano che le ore passano, Ulassai si trasforma da paese grigio e pietroso in un arabesco azzurro.

Gli abitanti lo guardano come se fosse la prima volta, come qualcosa di completamente nuovo, che loro stessi hanno creato in tre giorni. Sono felici: non è solo bello, è vivo, è la geografia emotiva delle loro relazioni. Verso sera, tre scalatori legano il paese di Ulassai alla montagna che lo sovrasta. Con nastri azzurri, naturalmente, mentre in paese si celebra la fine di quei tre giorni di festa.

Legarsi alla montagna è il titolo della prima opera d’arte “comunitaria”, o “arte relazionale” in Italia. Realizzata in tre giorni, ma preparata in un anno e mezzo ascoltando e coinvolgendo tutti gli abitanti, dal primo all’ultimo. Ognuno ha potuto dire la sua. L’artista tenace che ha tenuto saldi i fili dell’opera fino a consegnarli ai suoi concittadini è una piccola signora, si chiama Maria Lai. Ha 62 anni, ha esposto nei maggiori musei del mondo e alla biennale di Venezia. Ama ripetere che l’artista non crea l’opera, ma solo le condizioni per la sorpresa e lo stupore.

La scrittrice Michela Murgia ha raccontato la storia di quest’opera d’arte di comunità nel suo ultimo libro Noi siamo tempesta, sedici storie di imprese eccezionali compiute da persone del tutto comuni che hanno saputo mettersi insieme e fidarsi le une delle altre. Della sua conterranea Maria Lai dice: “Il materiale dell’opera non sono i nastri azzurri, non è il paese, non è la montagna, sono le persone, è la comunità.” L’artista ha creato le condizioni per lo stupore, la comunità ha realizzato.

Cos’aveva e cosa aveva messo davvero in comune la comunità di Ulassai? Forse non molto di quello che per i nostri più autorevoli vocabolari rende oggi un gruppo di persone una “comunità”:

Per lo Zingarelli, una comunità è un “Gruppo sociale che costituisce un’entità organica in base alle comuni origini, interessi pratici o idee dei componenti”.

Per il Treccani la definizione di Comunità è “Carattere, stato giuridico di ciò che è comune; Insieme di persone che hanno comunione di vita sociale, condividono gli stessi comportamenti e interessi”.

Queste serissime e moderne definizioni hanno a che fare soprattutto con l’identità. Identità che rischia di costeggiare e sfiorare la chiusura, l’autonomia, la sicurezza, la bandiera. Mettere l’accento sul “proprio” più che sul “comune”.

Abbiamo infatti comunità monastiche, linguistiche, di recupero, di accoglienza, terapeutiche, di pratica, virtuali, montane, nazionali, etniche, familiari, scientifiche.

La parola comunità ci accompagna dall’antichità: viene dal latino communitas, composta da cum che vuol dire con e munus. Munus ha più di un significato: dovere, debito, dono. Non un dono qualsiasi, però, solo il dono che si può dare, non quello che si può ricevere.

Nel suo significato più antico e profondo, quindi, comunità non è tanto appartenenza identitaria quanto una reciprocità dell’impegno a donare. E quello che connota la relazione è sia un dare che un darsi. Non la stabilità di un possesso, ma il rischio di perdere e ottenere nel fare insieme agli altri. Un mettersi in gioco per creare qualcos’altro.

Gli abitanti di Ulassai non si sono aggrappati all’identità, anzi. Prima di celebrare insieme la loro opera d’arte hanno discusso, litigato, riflettuto, preso le distanze, sfornato pane, rischiato di cadere da un balcone o da uno sperone di roccia.

Da quei tre giorni di settembre del 1981 è nato, lungo un trentennio, uno dei musei di arte contemporanea più belli e originali del nostro paese. Il paesino isolato dell’Ogliastra è uscito dall’isolamento per sempre. Tutto è cominciato con un’artista tenace, 27 chilometri di cotone azzurro e una piccola comunità di persone. Che si è fatta − e ci ha fatto − un dono meraviglioso.

Io mi sono innamorata di Maria Lai, che scriveva anche lei, su libri impossibili ma concreti e bellissimi, colorati e pieni di ritmo. O su lenzuola, per trasformare un intero paese in un trionfo poetico.
La grandiosa retrospettiva, Tenendo per mano il sole, che il Maxxi di Roma le dedica fino al 12 gennaio 2020 vale il viaggio. Ma anche in rete c’è tantissimo. Potete partire dal sito Stazione dell’arte o leggere la sua biografia.

Il video dell’intervento sul canale You Tube di Architecta.

12 risposte a “Legami e distanze in un arabesco azzurro”

  1. Meglio ancora è trascorrere un fine settimana a Ulassai.
    In occasione di qualche sagra fuori stagione.
    Per sentire sapori e profumi e conoscere persone del posto.
    Con internet non è possibile, neanche in 3d

  2. Cara Luisa,
    sai che proprio qualche giorno fa è stata riproposta, a Ulassai, l’idea di Maria. Erano in tanti a ricordarla e a tenere per mano nuovi fili, allargando sempre più quell’idea di comunità.
    Maria Lai è stata un’artista straordinaria e, come suggerisce Sergio, visitando Ulassai si può respirare tutta la sua influenza.
    Grazie per il tuo pezzo e grazie per aver contribuito a farla conoscere: ha fatto talmente tanto e in maniera così graziata che chiunque dovrebbe sapere di lei 🙂

  3. È rilassante, cara Luisa, lasciarsi prendere per mano dalle tue parole e camminare con te lungo il sentiero della narrazione. Scoprire mondi nuovi attraverso la minuziosità descrittiva dei particolari.

    Ogni volta i tuoi post mi ricordano quanta potenza abbiano i suoni e la forma delle parole, che sanno descrivere, commuovere e incantare.
    Grazie sempre a te
    Marinella Simioli

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