Al Summit IA di novembre il discorso di Abby Covert mi lasciò freddina. Non per quello che diceva – limpidissimo – ma per come lo diceva, anzi leggeva. Sembrava una scolaretta. Dopo aver letto il suo libro ho capito perché leggeva: non voleva correre il minimo rischio di essere imprecisa. Il libro è un capolavoro di precisione e nello scritto ho apprezzato esattamente quello che nel suo intervento non mi era piaciuto e avevo scambiato per pedanteria.
Abby si definisce così: “I am an independent information architect. I make sense of other people’s messes for a living.” Ho scaricato e divorato How to make sense of any mess in una di quelle mattine in cui senti che stai proprio in mezzo a un gran casino e che se non fai qualcosa la giornata probabilmente andrà storta. Avevo appena finito il libro di Maeda e quello di Abby, altrettanto esile e concentrato, mi è sembrato la sua ideale continuazione.
Una così attenta alle parole ci invita alla stessa attenzione e questa attenzione è il cuore del libro. Ci servono le parole per definire il nostro caos e il significato che intendiamo dargli, per comunicarlo a chi con noi lavora o ha interesse in quello che facciamo, per definirne il perché (che viene molto prima del cosa e del come), per trasformare le idee in cose e luoghi, insomma per progettare. Solo dopo vengono le ontologie, le tassonomie, le classificazioni… e per ognuna di queste parole c’è una definizione esemplare per semplicità e precisione, che sembra scritta con il Vocabolario di Base di De Mauro alla mano.
“Our language choices change how we use our time and energy. For every word we use to describe where we want to go, there’s another word that we’ re walking away from.
For every amusement park you make, you’re not making a video game. When you intend to be fun for kids, you can use stories but not metaphors. If you want something to be relaxing, it’s harder to make it educational.
The words we choose matter. They represent the ideas we want to bring into the world.
We need words so we can make plans. We need words to turn ideas into things.”
Gli esercizi suggeriti sono tanti e semplici. Eccone uno, che molti di noi già fanno, ma con dei vincoli stringenti che aiutano a restringere bene il campo.
- Scegli una serie di aggettivi che vorresti gli utenti usassero nel descrivere quello che stai progettando.
- Scegli una serie di aggettivi da non usare nel descrivere la stessa cosa.
Regole:
- Ogni serie di parole non deve ripetere né contraddire l’altra. La seconda non deve essere la lista dei contrari della prima.
- Evitare gli aggettivi negativi, come lento, brutto o cattivo. Ogni parola deve essere il più neutra possibile.
Un buon test: qualcun altro non dovrebbe riuscire a capire qual è la lista positiva e quella negativa.
Abby Covert è talmente precisa da darci anche la lista delle parole che lei ha scelto di non usare nel suo libro e perché:
- Fare IA (di solito travisata)
- IA (come abbreviazione)
- Architettura dell’Informazione (come nome proprio)
- Architetto dell’Informazione (tranne che nella dedica e nella bio)
- App come abbreviazione (troppo trendy)
- Molto (la parola più pigra del mondo)
- User experience (troppo specifica sul design)
- Metadata (troppo tecnica)
- Semantico (troppo accademica)
- Semiotico (troppo accademica)
Queste parole le usa naturalmente, ma in altri contesti. Non in un libro che vuole condividere la pratica dell’architettura dell’informazione (minuscolo) proprio con tutti. Le bastano parole ed esempi di tutti i giorni (la pizza regna sovrana) e disegni fatti a mano (il capitoletto sui diagrammi è favoloso).