Con il 14° volumetto, Le parole di Repubblica, si conclude la collana L’Italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile, frutto della collaborazione tra il quotidiano e l’Accademia della Crusca. Li ho presi quasi tutti e ne ho letti alcuni con agio e con grande piacere. I linguisti della Crusca sono riusciti ad affrontare problemi specialistici e a volte spinosi con elegante disinvoltura, con un linguaggio preciso ma alla portata di tutti.
Se penso che qualche anno fa la Crusca era a rischio chiusura e un altro importante quotidiano lanciava una petizione per tenerla in vita, plaudo a questa vitalità, apprezzatissima da tanti visto il successo della collana.
In quest’ultimo volume la palla passa a Repubblica, al suo direttore e ai suoi giornalisti di punta, che presentano la guida di stile del quotidiano, cioè l’elenco delle parole che possono presentare difficoltà di comprensione, scrittura, pronuncia, interpretazione. Difficoltà che poi sono di tutti noi.
È un segno importante che i giornali italiani aprano finalmente anche questa porta sul loro modo di valutare e scegliere le parole. Ha cominciato la La Stampa, che ha messo il manuale dei giornalisti a disposizione di tutti, e gratis. All’estero sono in tanti a pubblicare la loro guida di stile: sul Mestiere di Scrivere ho raccolto le più interessanti, dei più diversi settori di mercato o di istituzioni pubbliche.
In questa di Repubblica, l’elenco delle parole – dalla “a” preposizione a “zulu” – è preceduta da alcuni contributi davvero ben fatti. A cominciare da quello del direttore Mario Calabresi, che racconta cos’è oggi un quotidiano anche a chi non segue queste questioni per mestiere. Per esempio il cambiamento dei titoli:
Anche i titoli sono cambiati in questi ultimi anni: sono finalmente tramontati quelli filmici o letterari, che facevano il verso a pellicole e romanzi famosi. Per anni siamo stati pieni di governi, ministri, allenatori “sull’orlo di una crisi di nervi”, abbiamo avuto un “Arancia meccanica” quasi in ogni città e indagini su banchieri, politici, sindaci “al di sopra di ogni sospetto”. Gabriel García Márquez è stato uno degli autori più amati ma anche più vandalizzati dai titolisti di politica (“Cronaca di una rottura annunciata”), come di sport (“Cronaca di una sconfitta annunciata”).
Oggi invece i titoli sono più didascalici e descrittivi, vogliono andare al cuore del problema, abbondano i come i perché e tra le parole più gettonate ci sono motivo e ragione. Questo accade perché di fronte a una soglia dell’attenzione più bassa è necessario rendere subito esplicito, con chiarezza, di cosa si parla e di cosa si tratta. Inoltre bisogna sempre tenere presente che molti articoli, con la loro titolazione, potranno essere pubblicati anche in Rete e finiranno negli archivi digitali dove rischierebbero di essere incomprensibili e introvabili se non contengono in evidenza le parole chiave.
In questo senso anche le ripetizioni non sono più un errore grave, da sottolineare con la matita blu, ma vengono considerate necessarie per orientare il lettore, perché ogni articolo è destinato a vivere di vita propria. Tradizionalmente è stato considerato inaccettabile usare in una stessa pagina due volte la stessa parola o lo stesso nome, così se c’erano tre articoli su Berlusconi, uno solo poteva avere il cognome nel titolo e per gli altri si era costretti a far ricorso a formule come “cavaliere”, “leader di Forza Italia”, o semplicemente “Silvio”. Questi titoli letti nel loro contesto mantenevano senso ed era chiaro il significato, ma pubblicati singolarmente sul sito internet o messi in archivio potevano essere incomprensibili e anche grotteschi. Oggi questa attenzione esiste ancora ma la preoccupazione di essere chiari fa premio su tutto e, come ultimo tabù, è rimasta solo la prima pagina del giornale di carta: ogni sera un vicedirettore la rilegge con la matita in mano alla ricerca delle ripetizioni, omaggio romantico alla tradizione.
Come si interpreta questo bisogno di chiarezza e di pulizia nella scrittura divistica ed eccessiva per natura come quella sportiva? Risponde una delle penne che più amo di Repubblica, Emanuela Audisio:
Come tradurre questa attualità e trasformazione? Come scegliere parole che abbiano vivacità, profondità, conoscenza?. Hemingway, anche lui giornalista sportivo, diceva: non fare il furbo, racconta. Significa: non siate tifosi (se non della notizia), non siate gergali, abbiate equilibrio, non alzate la voce, cercate di vedere, ascoltate più voci. E oggi non siate gelosi di tv, radio, web, tablet, cellulari. Sono tutti partner dell’avventura. Cercate di completare l’informazione con spunti, interpretazioni, ricerca. Non siete competitivi con chi fa vedere e ascoltare lo sport voi lo dovete far leggere. Trovare le parole.
Conclude, impietosa, la carrellata del giornalese di Vittorio Zucconi, “quello scaffale sul quale sono riposte le espressioni prêt-à–porter che l’autore o l’autrice utilizza per pigrizia, per non cercare una formula propria, per non pestare calli e per facilitare la propria fatica”. E ricorda il direttore che a lui, giovane redattore, urlò: “La polizia ritiene?!… Si ritiene l’urina, asino!”
Le pagine del presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini suonano quasi indulgenti dopo la filippica di Zucconi, anche se “un po’ di purismo non guasta, nell’epoca della permissività”. Ma mi ha strappato un sorriso l’unica parola difficile che ha usato in un testo così piano e divulgativo: acribìa. Perché una parola che io amo molto e perché sono convinta che proprio nei testi piani e divulgativi funziona ogni tanto una spruzzatina di ricercatezza linguistica.
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Peccato, me li sono proprio persi!
No, alcuni sono ancora in edicola.
Ciao Nell acitazione di Audisio c’è una frase ripetuta 😊
Claudia
Grazie, corretto!
Luisa
non fate i furbi, raccontate ricercate ascoltate più voci argomentate ..chi cavalca una semplice notizia è cieco a tutto il resto.