Di Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahneman avevo sentito molto parlare, soprattutto attraverso interviste all’autore, premio Nobel che insegna psicologia sociale a Princeton. Nonostante il titolo e il tema invitante, finora le oltre 500 pagine mi avevano spaventata. Scaricato sul Kindle, lo spessore è sparito e le prime righe mi hanno conquistata (il nostro professore emerito farebbe delle interessanti osservazioni anche su questo, immagino).
Lo leggerò tutto, non ho dubbi, ma già ora che ne ho letto nemmeno un sesto ho ricevuto tanti di quegli stimoli che ho deciso di non fare la lettrice vorace e bulimica. Ne leggerò un poco alla volta e ci rifletterò.
Il post, per me, è la forma più efficace e raffinata di appunti: sapendo che lo leggeranno anche altre persone, l’impegno nella chiarezza è massimo e questo mi aiuta a chiarire le idee prima di tutto a me stessa e soprattutto me ne suscita di nuove, che illuminano la mia quotidianità e il mio lavoro.
Questo post è dunque dedicato a smontare un’idea radicatissima, che in ogni azienda, amministrazione, aula, viene fuori più o meno sempre con le stesse parole: “Ma se scriviamo frasi più brevi, se rinunciamo a certe parole ed espressioni, finiamo con banalizzare!”. Oppure: “Ma questi sono contenuti tecnici! C’è un limite alla semplicità!”. Ancora: “Ma questo è un testo formale! Che dico… istituzionale!”
Tutte queste obiezioni arrivano da persone colte, laureate, assolutamente in buona fede, tutt’altro che pigre, convinte però che a tema complesso debba corrispondere testo complesso e, possibilmente, astratto. Leggere Kahneman dimostra il contrario: sono proprio i temi complessi che hanno bisogno di un impegno divulgativo straordinario. Non di testi sempliciotti, attenzione, ma di una forte tensione alla semplicità sì.
Il professor Kahneman si è impegnato molto ed è stato ripagato con un Nobel per l’economia, un impatto fortissimo su altre discipline (ha molto da insegnare anche a chi comunica e scrive, come vedremo), un successo di vendite spettacolare.
Come fa?
Non ha paura della concretezza e non si rifugia nell’astrazione.
Così comincia l’introduzione:
Ogni autore, immagino, ha in mente il contesto in cui i lettori possono applicare gli eventuali benefici tratti dalla lettura delle sue opere. Il mio è il tipico distributore di caffè e bevande dell’ufficio, davanti al quale si scambiano opinioni e pettegolezzi. La mia speranza è di arricchire il vocabolario che si usa quando si esprimono commenti sui giudizi e le scelte altrui, sulle nuove politiche aziendali o sulle scelte di investimento di un collega. Perché curarsi di simili pettegolezzi? Perché è molto più facile, nonché molto più divertente, riconoscere ed etichettare gli errori altrui piuttosto che i propri.
In poche righe, il professore è riuscito a collegare autore e lettore (sono citati subito, sulla stessa riga), ad annunciarci che la lettura porterà benefici nella nostra vita, a catapultarci in un luogo familiare, a rassicurarci mescolando alto e basso (pettegolezzi e investimenti), a rispondere alla prima obiezione che ci viene in mente, a farci riconoscere in una comune verità (certo che è più facile riconoscere gli errori degli altri piuttosto che i propri), a farlo con garbo e senza prosopopea (immagino, la mia speranza), ad anticiparci anche un po’ di divertimento in cambio del tempo che decideremo di dedicargli.
Fa molti esempi, e molto semplici.
Soprattutto, li fa prima di esporre l’idea, non dopo. Così ci accompagna da ciò che conosciamo e ci è familiare verso ciò che ancora non conosciamo:
Imparare l’arte medica consiste in parte nell’imparare il suo linguaggio. Non diversamente, per arrivare a una comprensione più profonda dei giudizi e delle scelte, occorre un vocabolario più ricco di quello che ci è messo a disposizione dal linguaggio quotidiano.
Come il contatore dell’elettricità fuori della nostra casa o del nostro appartamento, le pupille rappresentano un indice del ritmo al quale è usata in un certo momento l’energia mentale.
Nel caso improbabile che da questo libro si traesse un film, il sistema 2 sarebbe un personaggio che si crede un protagonista.
Racconta il funzionamento della mente come una storia con due personaggi.
Se questo è il sistema 2, chi è il sistema 1? È la nostra mente intuitiva, quella dei pensieri automatici e veloci, quella che ci permette di vivere la quotidianità senza troppa fatica, ma anche quella che a volte ci inganna perché ci induce a prendere scorciatoie, che ci fa vedere la realtà e prendere decisioni sbagliate a causa dei nostri pregiudizi cognitivi. Il sistema 2, invece, è lento e capace di riflessione ma è anche pigro e molto restio a entrare in pista per darci una mano.
Tra i due, come tra protagonista e antagonista, c’è tensione continua, ma è proprio questa tensione a tenerci incollati per vedere chi ha la meglio. Il fatto che questa storia parli di noi e che si svolga silenziosamente nella nostra mente la rende irresistibile.
Dà del tu al lettore, senza insistenze, ma nei momenti chiave, quando gli chiede più attenzione.
Spero che tu abbia avuto un’esperienza analoga quando hai letto la domanda relativa a Steve il bibliotecario, la quale mirava ad aiutarti a comprendere il potere della somiglianza come indizio di probabilità e a vedere quanto sia facile ignorare dati statistici rilevanti.
Ti ho invitato a considerare i due sistemi come agenti interni alla mente, con la loro personalità, le loro abilità e i loro limiti individuali.
Potresti chiederti che senso ha introdurre dei personaggi fittizi con dei brutti nomi in un libro serio. La risposta è che questi personaggi sono utili per via di certe peculiarità della nostra mente. La tua come la mia.
L’uso del tu o del lei, o della forma impersonale, sono cruciali nel tono di voce di un’organizzazione, tanto da essere “disciplinate” nella guida di stile. Difficile tenerle tutte in equilibrio, perché spesso o si esagera in confidenza o si ha una paura tremenda di sconfinare dal famigerato “istituzionale”.
Kahneman ci insegna che le forme personali possono variare: sì, si può benissimo dare del tu al lettore, nominare l’azienda e usare la terza persona, passare al noi, sempre nella stessa pagina… lo facciamo anche nella vita, no?
Le forme personali sono anche il principale strumento con cui ci avviciniamo o prendiamo le distanze da chi ci legge: quando gli diamo del tu è come se lo guardassimo negli occhi, e non è che possiamo stargli addosso tutto il tempo, ma solo quando vogliamo aumentare l’intensità di quanto stiamo dicendo.
Usa una sintassi molto varia, ma sempre semplice e piana.
Ho fatto le prove: difficilmente c’è un periodo che vada oltre le 30 parole, ma spesso sono ben più brevi. Eppure parla del funzionamento della mente. Eppure ha vinto il Nobel per l’economia. Il professore è sicuro di sé e di quel che dice, soprattutto non ci tiene affatto a fare l’accademico e a darsi un tono. Ha passato una vita a studiare i nostri pensieri e diversi anni a scrivere i suoi libri. Un investimento enorme, per questo vuole che le sue parole arrivino a più persone possibili, siano utili a più persone possibili. Soprattutto, sa benissimo che la mente che legge ha bisogno di pause, del ritmo giusto, di fermarsi a riprendere fiato.
La scrittura aperta e rispettosa di Kahneman mi ha fatto tanto pensare a Tullio De Mauro, che condivide con lui la pratica della scrittura civile e democratica.
Grazie, mi hai convinto ad acquistarlo e sai perché, Luisa?
Perché mi fa da specchio, soprattutto quando scrivo recensioni per Tripadvisor (gratis come probabilmente sai). Qui ti trovi in un rimpallo continuano tra scrivente e lettore e poi imparare e affinare mi piace un sacco. Grazie ancora *_*
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