Parole gemelle
Nella tag cloud che si va costruendo sotto i miei occhi man mano che taggo i post di questo blog (sono a metà dell’opera), ci sono parole che mi sorprendono per le loro dimensioni rispetto ad altre. Una è la parola “lettura”, che è sì gemella di “scrittura”, ma mai avrei pensato di averle dedicato così tanti post. Questo è un altro.
Eppure, tutti i miei libri si aprono con un capitolo sulla lettura, fin dal librino rosa di sedici anni fa. Poi ci sono stati incontri importanti a farmi appassionare al meccanismo della lettura, a partire dal fondamentale, quello con Proust e il calamaro di Maryanne Wolf, per proseguire con The Sense of Style di Steven Pinker.
Ora è arrivato un altro libro che un paio di mesi fa avevo cominciato e snobbato, anzi quasi denigrato: The Reader’s Brain. How neuroscience can make you a better writer, di Yellowlees Douglas. L’ho ripreso a mente fresca e con un atteggiamento più disponibile e confesso che mi ha aiutato a mettere a fuoco e a connettere parecchie cosette che sapevo, ma in modo disordinato. Non ha la scrittura precisa e rigorosa della Wolf, ma è più semplice e accessibile del fascinoso mattone di Pinker.
Nei meandri della mente che legge
Negli ultimi anni le cose più interessanti sulla scrittura mi sono quindi arrivate dai libri sulla lettura, e più dalle neuroscienze che dalla linguistica. Forse perché è dallo studio della mente che legge che capiamo non solo “come” scrivere in maniera più chiara, ma anche il “perché” di tante pur buone indicazioni che leggiamo da decenni in tutti i manuali di scrittura.
La lettura, infatti, è stata per millenni una misteriosa scatola nera: sapevamo cosa vi entrava, sapevamo cosa vi usciva, ma non avevamo la più pallida idea di cosa succedesse lì dentro. I neuroscienziati oggi hanno molti strumenti per darci un’occhiata: per chi scrive è utilissimo sapere come le parole e le frasi vengono “consumate”.
Una corsa continua
La mente che legge lo fa con accelerazioni e decelerazioni continue, di cui non ci rendiamo conto. Gli occhi saltano da un gruppo di parole a un altro, si fermano, riprendono. Gli occhi vedono, ma è il cervello che legge, interpreta, connette, ricorda: prima riconosce le singole parole, poi le individua alla luce delle parole che precedono e seguono (così capisce se la pesca riguarda i pesci o è un frutto), poi le connette tra loro per dare senso al messaggio, infine le connette al vissuto, alle letture, alle conoscenze della persona.
La velocità di queste operazioni – e quindi la fluidità e l’agio della lettura – dipendono in gran parte dalle scelte dell’autore. Ma c’è una cosa che le sottende tutte: la mente che legge è come un indovino al lavoro, non fa altro che fare ipotesi su quello che viene dopo, verificarle, procedere oltre, fare un’altra ipotesi, verificarla, andare avanti. Più quello che segue conferma ipotesi e aspettative, più si corre veloci, fluidi, soddisfatti. Solo che di solito non ce ne accorgiamo. Ci accorgiamo benissimo, invece, quando la lettura è faticosa.
“Mentre gli occhi scorrono sulla pagina, il cervello è tutto intento a fare previsioni sul contenuto del documento, così come sul contenuto del paragrafo, persino sulla fine della frase.”
Entrata in scena
Come si fa, in concreto, a far volare il lettore sul testo? A confermare tutte le sue ipotesi? Soprattutto due cose:
- si usano parole specifiche e precise, così il senso di ciascuna è subito illuminato dalle altre parole che si trovano nello stesso periodo, vicinissime, prima e dopo
- si introducono il prima possibile l’attore e l’azione, cioè il soggetto e il verbo: senza di loro non c’è messaggio, non c’è senso, la mente brancola nel buio alla loro ricerca. Ecco perché le lunghe subordinate all’inizio di un periodo non funzionano. Ecco perché il vezzo di separare il soggetto e il verbo con un inciso fiacca immediatamente il lettore più volenteroso. Ecco perché la forma attiva funziona in molti casi meglio della forma passiva. Ecco perché i periodi lunghi, con molte subordinate infliggono fatica inutile.
L’orizzonte della mente
A queste piccole ma continue fatiche bisogna aggiungere il fatto che la mente non è multitasking: ha una memoria di lavoro breve. Se il soggetto è molto lontano dal verbo o se entrambi arrivano dopo un bel po’, la mente è costretta a fare quello che mai vorrebbe: tornare indietro.
“Ogni volta che il tuo lettore deve tornare indietro a rileggere una o più righe, come scrittore sei morto.”
Ecco perché a volte è meglio ripetere una parola che ricorrere a un pronome: se la parola di riferimento è troppo lontana, la mente deve tornare indietro. Ecco perché non si devono usare termini come summenzionato o già citato: la mente deve tornare indietro. Ecco perché è bene sorvegliare le negazioni: la mente deve fare la doppia fatica di comprendere qualcosa e poi negarla. E intanto l’ipotesi è lì che aspetta, impazientissima.
È inutile anticipare i dettagli, il come, il dove e il quando se non ho fornito ancora il chi o il cosa. La mente non li ricorderà, se vorrà ricordarli dovrà tornare indietro.
“Pensa: prima il soggetto, poi il verbo, poi… il diluvio di dettagli.”
“La mente che legge comincia a capire una frase solo dopo aver raggiunto il soggetto grammaticale. Poi trattiene il fiato finché non incontra il verbo. Solo allora tira un sospiro di sollievo, pronta a inspirare dettagli, precisazioni e tutte quelle belle cose con le quali gli scrittori accademici amano infarcire i loro periodi.”
Il testo è uno specchio
L’ordine delle parole e delle informazioni deve rispecchiare la mente umana, che va di ipotesi in ipotesi, ognuna una frase, un periodo. E non ama le interruzioni. Dov’è che formula le sue ipotesi su quanto sta per arrivare? Alla fine di un periodo e all’inizio di quello successivo. Ecco perché sono i punti cruciali di un testo, quelli in cui collocare le parole-snodo, i connettivi, o le parole chiave, che riprendono o annunciano la nuova frase. Ecco perché le frasette rituali iniziali sono da evitare. Ecco perché le parole collocate alla fine si imprimono all’attenzione e lasciano una scia luminosa nella memoria. Ecco perché le liste funzionano così bene: perché moltiplicano gli inizi e le fini. Ecco perché è utile ripetere una parola importante all’interno dello stesso testo, meglio se all’inizio: la mente la riconosce subito e la connette con quanto ha già letto.
Che succede dopo?
Se la mente non si ferma e non si affatica, le è più facile formulare ipotesi su quanto segue. Abbiamo tutti esperienza del pensiero che si affaccia sulla frase successiva mentre ancora non abbiamo finito quello che stiamo leggendo. Scrivere chiaro è assecondare questa corsa.
Le ipotesi che formuliamo durante la lettura sono soprattutto di un tipo: quello che segue è l’effetto di quello che ho appena letto. La mente si aspetta che scriviamo le cose nell’ordine in cui succedono nella vita reale. Ecco perché si leggono male periodi come questo: “Unitamente a una copia di un documento di identità valido, la preghiamo di firmare il modulo, previa compilazione dello stesso” (ho volutamente esagerato, ma avete capito: la mente non deve fare su e giù a rimettere insieme i pezzi e ricostruire cosa fare).
Il meccanismo causa-effetto è alla base della lettura, ma anche alla base di ogni storia. Ecco perché funzionano così bene. Ecco perché ogni frase dovrebbe essere concepita come una microstoria. Le storie hanno parole concrete, precise e vivide, escludono il passivo, si fondano sull’azione, cioè sui verbi.
“I verbi attivano i neuroni specchio” ha scritto un copyeditor su Twitter qualche giorno fa. Esagerava? In ogni caso ci aiuta a ricordare che i verbi mettono in scena il nostro teatro mentale, ci fanno vedere ed emozionare, cosa che nessuna pomposa nominalizzazione riesce a fare.
Obiezione!
Se assecondiamo in tutto le aspettative del lettore, se confermiamo ogni sua ipotesi, se gli spianiamo la strada così tanto da farlo arrivare alla fine soddisfatto della propria arte divinatoria, fin troppo sicuro di sé, senza troppi interrogativi, dove finiscono l’effetto benefico del dubbio e l’emozione della sorpresa, delle parole che non ti aspetti?
Primo: se togliamo fatica alla lettura, lasciamo tante energie mentali alla comprensione dei concetti. Più i concetti sono difficili, più è importante assecondare il lettore indovino. Il decano dei nostri linguisti Tullio De Mauro lo spiega benissimo nel suo libro Guida all’uso delle parole a proposito della sintassi:
“Frasi brevi e limpide si capiscono bene. La mente del lettore o dell’ascoltatore non è tutta impegnata nello sforzo, a volte disperato, di uscire dall’intrico delle subordinate. La mente del lettore può correre alla sostanza concettuale. E un maggior numero di menti può dedicarsi a questo compito.”
Secondo: il linguaggio è davvero lo strumento più versatile che ci sia. Possiamo chiedergli e fargli fare qualsiasi cosa, dipende dai nostri obiettivi. Se il nostro obiettivo è la chiarezza – perché il testo serve a fare cose importanti e utili, come scrivere un domanda o studiare – lasciamolo scivolare felice sul testo dall’inizio alla fine, concentrato sul contenuto, confermando le sue aspettative.
Ma potremmo avere tutt’altri obiettivi, e fare tutto il contrario: mettere le parole sottosopra, accostarle nei modi più inaspettati, farle giocare, collidere ed esplodere, giocare sul non detto, opporre parole e spazio, far fermare il lettore a pensare, sorprenderlo con ritmi inconsueti, avvolgerlo in un incanto che sulle prime capisce, fargli vedere cose che non ci sono o che non si aspetta e molto altro ancora. È quello che da sempre fa la poesia.
Salva
Sto imparando a scrivere e questi spunti di riflessione sono utilissimi, come altrettanto lo è stato il libro che ha dato titolo anche a questo blog.
Grazie Luisa.
Dimenticavo: sono anche un “runner” e quindi leggere il tuo articolo mi ha fatto ancora più piacere.
Quante affinità tra la scrittura e la corsa! Anche quando si scrive bisogna fare prima lo stretching, poi allenarsi con pazienza per rompere il fiato 🙂
Nella fretta degli impegni che si rincorrono per alcuni clienti in attesa scorro, attraverso la newsletter che mi hai inviato, questo tuo ricco e generoso contributo.
E faccio qualcosa di “antico e sempre nuovo”.
Stampo questo post paralimpico: lo rileggerò nella calma della sera. Grazie.
Da qualche parte ho letto che iniziare una storia con una subordinata crea aspettativa nel lettore. Per esempio l’incipit de Il signore degli anelli: “Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunciò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbyville si mise in agitazione.”
Secondo me certe considerazioni vanno bene per iniziare a scrivere. Ma non possiamo uccidere lo stile personale né scrivere un intero romanzo iniziando ogni frase con soggetto, verbo e complemento.
Stiamo parlando forse di romanzi? Mi pare proprio di no, stiamo parlando di linguaggio chiaro e informativo. E questo è un blog di scrittura professionale, non di narrativa. Punto.
Leggo sempre le tue note con piacere e attenzione.
Leggo con calma, lentamente, assaporando. È l’unica cosa che non faccio di fretta, pardon, anche scrivere.
Sto leggendo lentissimamente, assaporando appunto, “Appia” di Paolo Rumiz, non solo l’Appia, ma le parole che la narrano. Grazie per questi regali *_*
Cara Luisa,
come spesso mi capita con i tuoi post, ho letto due volte il testo. La prima per il “cosa” e la seconda per il “come”. Mi piace assaporare a strati ciò che scrivi,e soprattutto come lo scrivi, con una precisione lessicale mai scontata.
Sulla lettura condivido con te l’idea che si tratta, forse inaspettatamente per molti, più di neuroscienze che di linguistica. E a questo proposito voglio segnalare il sito del Max Planck Institute for Psycholinguistics (diramazione olandese della sede tedesca).
Per me è stata insieme una rivelazione e una conferma leggere che esistono reparti che si occupano, per esempio di Neurobiology of Language o Psychology of Language. Scoprire che leggere è ben più che mettere in fila parole scritte da altri è istruttivo e stimolante.
Il sito è:
http://www.mpi.nl
Grazie sempre a te, Luisa, per la tua generosità divulgativa. Ogni volta annoto qualche titolo da aggiungere alla lista di quelli che hai segnalato.
Buon lavoro a te e a tutti!
Marinella Simioli
Ciao Marinella,
grazie, annoto anche io!
Luisa
[…] Recentemente ho letto un bellissimo articolo di Luisa Carrada sul ruolo del lettore (ma anche sull’importanza di leggere per chi scrive!) in cui, per altro la lettura viene paragonata alla corsa: te lo consiglio: La lettura è una corsa. Un’arte divinatoria. […]
[…] P.S. Se non l’avete ancora fatto, leggete l’articolo di Luisa Carrada: La lettura è una corsa. E un’arte divinatoria. […]
[…] dedica molti post alla lettura, almeno quanto alla scrittura di cui è esperta. Ed in uno dei suo post parla di come le neuroscienze abbiano studiato il fenomeno della […]
Caspita quanto c’è da imparare! Tecnica, dinamica ed equilibrio. Le mie regole di scrittrice, scarsamente accademica ma attenta a non seminare vuoti. Grazie! Tutto molto molto interessante.
Se leggere è come correre allora debbo constatare che in Italia sono in tanti ad essere fermi ai box per crampi…
Bella immagine 🙂
Luisa