Dietro ogni stampa fotografica di Gianni Berengo Gardin c’è un timbro verde con la scritta “Fotografia vera”. È anche il titolo della mostra che si chiude domani al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
E “vero” sembra proprio l’aggettivo più adatto per il fotografo e le sue foto. Vero l’uomo dietro la Leica, vero il suo racconto dell’Italia degli ultimi cinquant’anni, profondamente veri e autentici la passione per la fotografia e per le persone tutte.
Il fotografo si avvicina ai novanta e ha la macchina fotografica in mano da sempre: durante la guerra i tedeschi sequestravano le macchine, ma il ragazzino incosciente se ne fregava del divieto e se ne andava in giro a fotografare. Da allora non la molla mai, per lui le vacanze non esistono perché il suo lavoro coincide con la sua passione.
Da ragazzo, la sua Venezia lo incanta e la fotografa come farebbe un pittore, liricamente. Ma è il trasferimento a Milano a metterlo a contatto diretto con il mondo della fabbrica e con le due durezze. Comincia a fotografare le persone che lavorano: gli operai alla catena di montaggio o sospesi sulle impalcature, i tramvieri nei depositi, i ferrovieri affacciati ai finestrini.
Il fotografo Gianni è discreto, rispettoso e molto paziente. Renzo Piano racconta che per scattare la foto di cantiere qui sopra rimase fermo immobile per dieci minuti. Alla fine scattò, si voltò verso di lui e disse: “Fatto!”. Fermo, ma dopo aver trovato il “suo” punto:
“Quando fotografo amo spostarmi, muovermi. Non dico danzare come faceva Cartier-Bresson, insomma cerco anch’io di non essere molto visibile. Se devo raccontare una storia, cerco sempre di partire dall’esterno: mostrare dove e come è fatto il paese, entrare nelle strade, poi nei negozi, nelle case e fotografare gli oggetti. Il filo è questo; si tratta di seguire un percorso logico, semplice, capace di rivelare un paese, una città, una nazione. E così conoscere l’uomo.”
Con questo muoversi, nascondersi e fermarsi riesce a cogliere istantanee compositive che ci lasciano immaginare intere storie, come nella prossima foto, colta nel gioco di aperture e di specchi di un vaporetto veneziano. Sembra un quadro di Magritte, ma nessuno è in posa, sono la mente e l’occhio del fotografo a fermare l’attimo di un possibile racconto:
“Volevo essere artista: le belle fotografie. Ma ho capito che esisteva un altro modo di fotografare e che in fondo non mi interessava più diventare artista ma giornalista. Se prima per me la macchina era come il pennello per il pittore, poi diventò come la penna per lo scrittore: uno strumento per raccontare cose.”
Racconta l’Italia del boom, l’Italia contadina e anche l’Italia che non vuol vedere. Offre il suo occhio a Franco Basaglia, impegnato nella battaglia per la chiusura dei manicomi. Dietro quelle mura e quelle grate ci va in punta di piedi e ci rimane a lungo. Rivela le atrocità, le sofferenze, ma anche meravigliosi e resistenti barlumi di individualità nei volti che decidono di guardare con fiducia verso la macchina fotografica.
Gianni Berengo Gardin ha fotografato sempre e solo in bianco e nero. “L’emozione di un bianco nero così particolare che sembra trasformarsi in un colore sconosciuto.” ha scritto Carlo Verdone commentando una fotografia in mostra.
“Nasco col cinema in bianco e nero, con la fotografia in bianco e nero e anche la lettura, in fondo, è in bianco e nero. Un fotografo, come lo scrittore, ha il suo stile e va avanti con quello.”
Sebastião Salgado definisce Berengo Gardin “il fotografo dell’uomo”. Anche nel suo ultimo libro, che denuncia il passaggio delle grandi navi nella sempre più fragile Venezia, l’uomo c’è sempre. Minuscolo, o solo mentre si avvia nella calle incontro a un destino misterioso.
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Non conoscevo questo fotografo, ma lei tue parole me l’hanno fatto amare; ho comprato il suo libro, bello da vedere e da leggere. Grazie, Anna
Ne sono felice. Un grandissimo fotografo e una grandissima persona.
Luisa