Percorrere tanti anni di questo blog mi ha fatto ritrovare decine di piccoli post ispirati dal momento. Molti belli e preziosi. Cose che oggi posterei su Facebook e che quindi non avrei più ritrovato. Per questo ho deciso di ricominciare a postare prima di tutto qui quello che voglio conservare perché penso sarà importante anche tra qualche anno. Non necessariamente parole e riflessioni mie, ma anche quelle di altri che mi hanno colpita.
Comincio con due piccoli post che riguardano il racconto del terremoto, uno di Roberto Cotroneo, l’altro di Luca Sofri. Ci fanno riflettere sull’etica della scrittura. Se alcune parole e pratiche nel momento del dolore ci feriscono di più, è pur vero che sono malpratiche sempre, anche nel nostro modesto lavoro quotidiano.
Roberto Cotroneo, su Facebook il 25 agosto:
Molti giornali, non tutti, oggi hanno dimostrato una palese inadeguatezza sul dramma del terremoto. E non è una inadeguatezza sulla capacità di coprire i fatti o di dare le notizie. È qualcosa d’altro, è un linguaggio falsamente lirico, standardizzato nel voler riportare sensazioni, emozioni e drammi. Un modo da cattivi scrittori che diventa persino di cattivissimo gusto quando ha a che fare con il dolore vero, il lutto e la tragedia. Per buona parte il giornalismo italiano – della carta stampata soprattutto – è vecchio e inadeguato, persino un po’ irritante, malato di un opinionismo e di cronache sul campo ingenue, goffe e un po’ grossier. Da parvenu della cultura e della letteratura. C’è bisogno di riflettere. C’è da tornare a una serietà che è fatta di scrittura che non si atteggia a scrittura, di sguardo discreto, di qualche parola in meno per capire qualcosa in più. E soprattutto di rispetto per lettori che non ne possono più di equilibristi ed esibizionisti dell’aggettivo.
Luca Sofri, sul Post il 26 agosto:
Il modo in cui vengono confezionate per i lettori le notizie di questi giorni è la più efficace dimostrazione della cosa che dicevamo qui, l’inclinazione non a dare informazioni ma a dare “emozioni” già precostituite: neanche a “suscitarle”, ma a decidere a priori quali debbano essere, a predefinirle e a far prevalere l’emozione sul fatto, scegliendo e indicando per ogni fatto l’emozione relativa, come da un menu (menu piuttosto povero, tra l’altro: brividi, paura, una manciata di aggettivi). Leggo in una stessa homepage di grande sito di news in questo momento:
“Amatrice, la scossa è in diretta: da paura il rombo”
“Amatrice, salvato il cane: il commovente incontro con il padrone”
“Gli sfollati e il doloroso recupero dei loro oggetti”
“Gli applausi, le lacrime: il salvataggio di Giorgia e Giulia emoziona il mondo”
“Pescara del Tronto, le terribili immagini del drone”
(e trascuro i titoli fatti solo di virgolettati di persone e delle loro, di emozioni)
Il risultato è – non parliamo qui della qualità dell’informazione sui fatti trasmessa in questo modo – di abituarci non solo alla necessità di emozioni sempre più artificiosamente esagerate per interessarci a una notizia o a una storia (che invece sarebbero sufficienti a impressionarci per il loro contenuto), ma anche a che queste emozioni siano decise al posto nostro, impoverite in una piccola scelta dal catalogo dell’enfasi, prefabbricate.
Anche io ho l’abitudine di postare sul mio blog quello che scrivo su Facebook, perché è vero che sui social le cose passano e non sono più rintracciabili, specialmente dal momento che non sono taggate. Complimenti per il tuo lavoro certosino di taggatura, fatto a posteriori è davero un lavoro improbo.
Il dovere di cronaca e/o un pezzo di buon giornalismo sono un’altra cosa rispetto al voler suscitare emozioni preconfezionate.
Intervistare quasi per forza persone che hanno perso tutto o quasi che sono affrante dal dolore, sconvolte, svuotate non solo non è da giornalisti, ma mi dà l’impressione di chi, pur di essere sul pezzo, risponde a false logiche d’impresa: approssimative, superficiali, di puro sensazionalismo. La professionalità, la deontologia, il rispetto e la sensibilità per chi in certe tragedie non ha più neanche gli occhi per piangere sono un’altra cosa.
Un suggerimento, se può essere utile, di fronte a tanta improvvisazione e inettitudine il mettersi nei panni degli altri servirebbe, se non altro a capire, come non dovremmo mai comportarci.
sono totalmente d’accordo
Analisi molto belle e ben strutturate, laddove io avevo riscontrato solo per l’ennesima volta che in Italia il giornalismo è morto, e sono rimasti solo gli sciacalli a intasare tutti i media con dirette che non lo sono, approfondimenti che non approfondiscono e servizi che non servono.
Tutto questo per strappare numeri di audience facile dalle tragedie su cui è più facile ricamare drammi pilotati, sempre più lontani dalla realtà.
Non servono proprio.
Penso meriterebbero di essere censurati: sciacalli.
linguaggio irritante che fa leva solo sulle emozioni e fa presa sulla maggioranza,esiste anche una minoranza che legge con attenzione e si sdegna molto spesso,una sono io.è vero che tentare di descrivere un emozione,tra l’altro non vissuta, è schifosamente mediocre.danno poco spazio alla verità dei fatti.
Concordo soprattutto con le riflessioni di Sofri.
Io penso che il giornalismo – ma in realtà sono soprattutto i cronisti della carta stampata e ancor più quelli televisivi – soffra di egocentrismo, oltre che di goduria per la cattiva notizia.
Mi spiego. Dico egocentrismo perché il cronista vuole apparire, fare colpo e quindi rimesta in tutto ciò che colpisce il lato oscuro che è in tutti noi, compresi i più attrezzati. D’altronde un pugno allo stomaco è più efficace di una carezza. Così l’informazione va a farsi friggere.
Non siamo inglesi e non abbiamo la “distanza”, però se, invece la buona notizia divenisse habitus non colpirebbe altrettanto il lato emozionale?