“Se tutto può diventare banale, tutto può ridiventare meraviglioso. Che cos’è il banale se non il meraviglioso fatto decadere dall’abitudine?”
Aveva proprio ragione Gyula Halász, il fotografo ungherese che volle farsi francese e che conosciamo con lo pseudonimo di Brassaï, ma per trasformare il banale in meraviglioso ci voleva un occhio come il suo. La mostra che lo celebra a Milano a Palazzo Morando è piena di queste meravigliose trasformazioni, 260 per l’esattezza, quante sono le foto di Brassaï. Pour l’amour de Paris.
Parigi, che ritrasse instancabile in bianco e nero per tutta la vita, è infatti una passione esclusiva. La conobbe bambino, nei primi anni del novecento, durante un anno sabbatico del padre. Ci tornò, e per sempre, poco più che ventenne inseguendo una nostalgia. Sarà per questo che all’inizio ritrasse così tanti bambini? Più che ritrarli, li fotografa inosservato: sono spesso di spalle, per strada o ai giardini del Luxembourg, mentre giocano, tengono il primo palloncino o spingono una barca nello specchio di una fontana. Non sembrano accorgersi affatto di essere oggetto di tanta attenzione.
Il fotografo sembra invisibile anche per le coppie che si abbracciano su una panchina o si baciano nel buio di una via o nella folla di un caffè. Spesso non vediamo i loro volti o li vediamo riflessi in uno specchio. Quanti specchi ci sono in Brassaï! Che incornicino i corpi nudi nelle case chiuse o gli occhi lampeggianti di Picasso, sono lì a nascondere allo sguardo il testimone con la sua inseparabile macchina fotografica.
In realtà Brassaï aveva cominciato col disegno e girava per Parigi con il taccuino in mano. Come i graffitisti contemporanei era affascinato dai muri e da quello che le persone vi avevano lasciato inciso, per volontà o per caso. Due buchi diventano occhi e poi un viso, in una crepa vede un pesce o un uccello, in un cuore coglie le iniziali degli amanti. A un certo punto lascia il taccuino per la macchina fotografica e inizia la trasformazione del banale in meraviglioso. Considerava la fotografia una costruzione mentale a partire dal reale, il cui obiettivo è “sgomberare la visione dallo strato di abitudini e pregiudizi che l’ha incrostata”.
Lo sguardo di Brassaï sa farsi sorprendere e vedere nelle strade di Parigi cose che sono sotto i nostri occhi ma che da soli non vedremmo mai: un’ombra diventa un profilo, un marciapiede sotto la pioggia un serpente squamato, le chiatte sulla Senna “esseri dotati di un’anima” e a te sembra di essere arrivata nel bel mezzo di un romanzo di Simenon. Tanto più che Brassaï di Parigi ama soprattutto le notti, con le sue nebbie che sfumano ogni cosa.
“A Parigi ero alla ricerca della poesia della nebbia che trasforma le cose, della poesia della notte che trasforma la città, della poesia del tempo che trasforma gli esseri.”
Questa capacità di vedere e trasformare deve avere affascinato Picasso, che chiese all’amico Brassaï di fotografare le sue sculture, fino a quel momento sconosciute e rivoluzionarie non meno della sua pittura. Secondo lui, le fotografie facevano “respirare le statue nello spazio, restituendo loro la rotondità”.
Respiranti e rotondi sono anche i sensualissimi nudi che chiudono la mostra. Senza arti, senza volti, le curve si appropriano di tutta la superficie. Immobili, ma morbide e pronte a cambiare forma come dune nel deserto.
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Brassaî Ebbe un grande rapporto con Picasso, che si convinse definitivamente della necessità che la pittura cambiasse strada: “Sarebbe una follia, non è vero? La fotografia è arrivata al momento giusto per liberare la pittura da tutto ciò che è narrazione, dall’aneddoto e persino dal soggetto”