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risali negli anni

26 Febbraio 2015

Lo dico in italiano, ma ogni tanto pure in inglese

Ecco, ho firmato anch’io la petizione #dilloinitaliano promossa da Annamaria Testa. La mia motivazione è questa: perché non riesco a scrivere “weekend”.

È vero: concludo le mie email, anche quelle informali, con “buon fine settimana”. Non uso mai parole come deadline, lunch, break, timeline, effort, location, appealing. Odio e censuro i calchi come ingaggio. Ma adoro una parola inglese come takeaway, nel senso di quello che ti porti a casa dopo aver letto o ascoltato qualcosa o qualcuno (ora comunque farò come Licia Corbolante e ricorrerò al non meno simpatico asporto). Però non riesco a rinunciare a parole come slide o call. Non mi ci vedo a dire a un cliente “preparerò una presentazione con diapositive” o “ci possiamo sentire in videoconferenza” e nemmeno “devo restituire il tesserino in portineria?”. Dico badge da quando lavoro e di primavere ne sono passate assai. Così come non riuscirei a usare riassunto o sintesi al posto di abstract. Anche perché non è la stessa cosa. Credo che alcune parole siano legate a un tempo e al tempo non possiamo far fare marcia indietro.

Insomma, la questione dell’inglese mi vede molto combattuta e mi regolo con il buon senso volta per volta. Il buon senso per me è soprattutto:

  • non sembrare ridicola, fuori luogo e fuori tempo
  • preferire la parola straniera quando è ampiamente condivisa in un determinato settore tecnico o specialistico
  • usare le parole straniere quando arricchiscono un discorso, gli danno una sfumatura o un sapore particolare; non succede spesso, ma quando colgo quella sfumatura, non esito mai.

7 risposte a “Lo dico in italiano, ma ogni tanto pure in inglese”

  1. Ciao Luisa.
    Grazie per aver firmato!
    In realtà, Dilloinitaliano non censura (o propone di rinunciare ad) alcuna parola.

    La petizione è costruita su due capisaldi:
    – tutti noi, giorno per giorno e nel momento in cui parliamo, costruiamo e ricostruiamo la nostra lingua, che è un bene comune e ha un valore. Proprio come l’aria o il paesaggio. Potremmo rendercene conto.
    – chi ha voce pubblica ha una responsabilità in più sul produrre discorsi comprensibili e dotati di senso e potrebbe, se vuole, metterci un zinzino in più di consapevolezza.

    Questo, per tutti noi, significa usare l’inglese quando serve, e anche quando ci piace farlo.
    Ma usarlo con consapevolezza del senso di quel che diciamo, e senza provocare collassi verbali del tipo “l’outfit oversize è out. Nella top ten, il glamour del look skinny che fa tanto bad girl” (e dire che la moda sarebbe un’eccellenza italiana nel mondo).

    Significa anche (questa è una vecchia battaglia, che ti vede protagonista) invitare le pubbliche amministrazioni a spiegarsi chiaramente, senza velarsi dietro parole incomprensibili: l’incrocio perverso tra burocratese e itanglese sta davvero producendo mostri.

    Mi ha scritto una delle persone che hanno firmato: “oggi ho riletto una mail prima di spedirla. Mi sono accorto che di italiano erano rimaste solo le congiunzioni”.
    Ecco. Di questo stiamo parlando, tutti insieme.

    Un abbraccio, a presto e ancora grazie!
    Annamaria

  2. Ovviamente ho firmato.

    Poi, il 10 febbraio si annuncia il nuovo simbolo per Roma: Rome & you. Un restyling, ecco qui forse l’inglese ci vuole, perché mi pare che restauro o peggio miglioramento proprio non siano appropriati. Questo mi ha confermato la bontà dell’iniziativa di Annamaria.

    Su NeU ho scritto quanto segue.

    Roma NON è la capitale, è molto, ma molto di più.
    Solo Alemanno poteva aggiungere CAPITALE!
    Una città che il mondo ama e visita non è solo capitale.

    Ha un logo antico che rappresenta la forza laica della città: SPQR (molti non ricordano neanche più che cosa significa), come contraltare dell’altra grande anima della città: la chiesa.

    Ora, a parte questo assurdo scimmiottare la lingua inglese, che accidenti mi rappresenta questo logo?
    I fascisti cavalcano il dissenso, ma c’era proprio bisogno di questo *_))

  3. Ho firmato? Certo, anche io ho firmato, nonostante i miei problemi con le lingue in generale, a partire proprio dalla mia: la lingua italiana.

    Non metto in discussione l’utilità e la presenza dei termini e delle lingue straniere, in alcuni settori si è quasi obbligati ad utilizzarli e comprenderli (questo vale anche per il linguaggio giovanile).

    Metto in discussione il loro utilizzo, a volte inopportuno e spesso ingannevole.

    Non credo che il “jobs act” sia migliore di una “riforma del lavoro”, speriamo che prima o poi “lassù” capiscano che i contenuti sono più importanti dei titoli, a partire da quelli personali …

  4. Tutto giusto, ma ho un’obiezione. I primi tempi, a Milano, quando dicevo “corriera” anziché bus, termine entrato anche nel mio vocabolario da quando sono bambina, mi ridevano tutti dietro, compresa la tutor (altra parola inglese) sessantenne del master a cui ero iscritta. Ma per me una cosa è il bus, o autobus; altra è la corriera, che per me va più lontano.
    A volte è anche questione di distinguo e di appiattimento. Ormai mi sono arresa ma dico “navetta” (mi rifiuto di chiamare autobus un mezzo che faccia percorsi interurbani).

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