Nei musei di solito non patisco troppo il divieto di fotografare, ma domenica mattina alla Fondation Beleyer di Basilea avrei davvero voluto fermare qualche immagine, qualche istante. Non della pur splendida mostra di Gustave Courbet, ma del luogo straordinario in cui mi trovavo.
Eppure da fuori non vedi molto: solo un basso padiglione in pietra, con un grande vetrata, uno specchio d’acqua davanti, in un sobborgo residenziale di Basilea, ai limiti della campagna. Solo quando ci sei dentro capisci la genialità dell’architetto, che ha creato un luogo quasi trasparente, al solo servizio delle opere e dei visitatori. Grandi pareti bianche, un parquet chiaro, una luce perfetta, modulata sui cambiamenti di quella esterna attraverso tende sottilissime che si alzano e si abbassano impercettibilmente. Da ogni punto vedi almeno uno scorcio dell’esterno: una villetta adiacente, un campo coltivato, bambini che giocano. Cose che cambiano in continuazione ed entrano nel museo attraverso gli sguardi tutti diversi dei visitatori.
Alla mostra di Courbet non c’erano cartellini, né cartelloni, né “apparati didattici”. Eppure è stata un’esperienza appagante, ricca, istruttiva, riposante, di un’usabilità assoluta, in cui mi sono sentita in the flow come raramente mi è capitato.
Accanto ai quadri solo le informazioni essenziali trasferite sul bianco della parete in una leggibilissima font senza grazie. Molti avevano vicino una piccola icona, o due. Il simbolo della pagina, che rimandava alla guida gratuita che avevi ricevuto all’ingresso e che ti leggevi da sola in santa pace. O quello della cuffietta, che rimandava all’audioguida. Non una lettera o una virgola in più, ma nemmeno una in meno. Nessuna sovrapposizione, solo l’informazione che desideravi, al momento giusto, sullo strumento giusto. Nessun assembramento per leggere da testi fitti fitti appesi alle pareti ad altezze improbabili, una delle cose più inutili e faticose cui gli architetti di mostre e musei raramente riescono a fare a meno.
Quando alla fine mi sono seduta su uno dei tanti enormi divani bianchi di fronte alla parete di vetro e al paesaggio autunnale, circondata da bellissimi libri da sfogliare liberamente, ho pensato con orgoglio e amarezza insieme che chi ha progettato un luogo tanto semplice e tanto bello è un grande italiano. Noi Renzo Piano l’abbiamo fatto senatore a vita – se lo merita -, ma perché non gli abbiamo fatto costruire dieci, cento musei così a casa nostra?
…Poi, se ci sono tanti testi appesi e mi metto a leggerli, m’incavolo pure se ci sono refusi!!!
Semplice, perché da che Italia è Italia ci preoccupiamo di trattare le cosiddette “eccellenze”, persone, opere d’arte, ecc., come fossero intoccabili e inviolabili. E invece di farle fruttare in modo che si sostengano da sole si spendono fiumi di soldi (nostri ovviamente) per mantenerle in vetrina (o in Senato), come statue da venerare. È un’impostazione mentale degli italiani: medievale, retrograda, antidemocratica. E nemica dei cambiamenti.
MUSE. Trento. Italia.
Un’altra sua opera che merita una visita.
[…] Il museo usabile, senza cartellini né cartelloni […]
a me piacerebbe sapere chi è il paesaggista che ha reso ancora più fruibile il museo. Pensate, che cosa sarebbe stato solo l’edificio senza il giardino intorno?
[…] mese fa dedicai un post alla Fondation Beleyer di Basilea, che intitolai Il museo usabile, senza cartellini né cartelloni. Così venerdi 27 aprile, quando ho sentito Sab Chan raccontare del “museo senza testi” […]