Non ho ancora visto Il giovane favoloso di Mario Martone, ma intanto ho sbirciato nella dimensione più familiare e informale di Giacomo Leopardi attraverso la lettura di Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, libretto brillante e illuminante di Giuseppe Antonelli.
Il docente universitario di linguistica italiana è anche il conduttore della trasmissione di Radio3 La lingua batte, nonché grande appassionato ed esperto di canzoni. Lo si vede, e soprattutto lo si sente, dal bel ritmo di questo libro, che passa con disinvoltura da Dante alle canzonette, da Manzoni al web.
Ebbene sì, Leopardi diceva e scriveva le parolacce, quando ci volevano ovviamente. Dante le mette più che credibilmente in bocca ai suoi personaggi nell’Inferno. E Manzoni, se non proprio “un attimino” non disdegnava di scrivere “un momentino”. Per non parlare di altri famosi scrittori che facevano i loro bravi errorucci o incorrevano in quelli che oggi ci sembrano tali. L’obiettivo di Antonelli non è certo di prendere in castagna i nostri miti del liceo, ma di dimostrarci che “l’italiano” perfetto, immutabile, il riferimento di una fantomatica “bella scrittura” non esiste e non è mai esistito.
“Bisogna farsene una ragione: il purismo alle lingue fa male.”
E per fortuna, perché “solo le lingue morte non cambiano nel tempo”. La nostra, la quarta lingua più studiata nel mondo, “gode oggi di ottima salute. Anzi, per certi versi non è mai stata così in forma.” In forma perché viva, accogliente, mutevole, scritta quotidianamente da milioni di italiani in email, chat e social media. Mai l’italiano scritto è stato praticato come oggi.
“Se si prende per buona l’idea della lingua come una sorta di organismo vivente, infatti, si può paragonare il lessico all’epidermide, le cui cellule sono sottoposte a un ricambio rapido e incessante.”
Il libro fa piazza pulita – con garbo, ironia, decisione e dati alla mano – di un sacco di pregiudizi: il congiuntivo è usatissimo, e con proprietà, dai giornali alle canzoni; “ma però” si può scrivere, eccome; il punto e virgola è in ribasso da tanto tempo, ben prima del web; le parole straniere, se usate quando servono e senza alzare inutili barriere, arricchiscono la lingua, non la depauperano.
“Forse basterebbe avere un’immagine meno polverosa – meno libresca, appunto – del nostro italiano. Basterebbe smettere di accostarsi alla lingua usando la vecchia grammatica dei tempi di scuola. Abbandonare l’idea che l’italiano corretto sia come il pappagallo impagliato che l’amica di nonna Speranza tiene accanto al busto d’Alfieri e alle altre ‘buone cose di pessimo gusto’.
Ci si renderebbe subito conto che in una lingua viva e finalmente parlata (e scritta) da quasi tutti gli italiani in quasi tutti gli usi comunicativi, la norma non può che rifrangersi in una pluralità di norme.”
Io ho tratto dal libro molte conferme e spunti per il mio lavoro e anche la frase che mi rivenderò quando nell’aula di un’azienda mi sentirò arrivare la fatidica domanda “Ma a scuola mi hanno insegnato che secondo la grammatica… si può dire?” D’ora in poi risponderò, à la Antonelli:
“In fondo la grammatica è l’arte di dire le cose nel modo giusto al momento giusto.”
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Bella recensione, mi prendo l’impegno di leggerlo!
Del resto, certi strafalcioni sono quasi indispensabili nella scrittura di testi umoristici. L’importante, dico io, è che siano strafalcioni “consapevoli”, per poterli ben piazzare e raggiungere l’effetto voluto…
[…] già letto, incuriosita dalle recensioni di Silverio Novelli e di Luisa Carrada, e anch’io ve lo consiglio: si impara molto e ci si […]