Che gioia ritrovare il vecchio Matisse alla mostra romana di Henri Cartier Bresson! L’avevo lasciato con i suoi ritagli proprio pochi post fa. Qui è intento a disegnare una colomba, sicuramente cercando di dimenticare “tutte le colombe viste prima” per vederla come se fosse la prima volta.
Per il fotografo, invece, la cosa più difficile era proprio il ritratto, “difficilissima, un punto interrogativo poggiato su qualcuno”. Per trovare la sua risposta, si ritirava il più possibile, aspettava, finché la persona da ritrarre si dimenticava di lui e tornava con naturalezza alle sue occupazioni. Sarà stato così anche nello studio di Matisse.
Cartier-Bresson era paziente e trovava sempre la sua risposta. Alla mostra dell’Ara Pacis ci sono anche le risposte di Sartre, Giacometti, un giovanissimo Truman Capote, i coniugi Curie.
Solo cinque ritratti in una mostra strepitosa che in quasi quattrocento fotografie documenta un’intera vita e settant’anni di storia. All’inizio un Henri adolescente, con la macchina fotografica a tracolla, a immortalare feste di compleanno in famiglia e un campo scout. Alla fine, i suoi disegni “contemplativi” in cui studiava ormai solo il suo volto, con un segno arrotolato tanto vicino a quello di Alberto Giacometti. In mezzo, la sua adesione alla poetica surrealista, i viaggi in tutto il mondo, la guerra civile spagnola, la Francia occupata dai nazisti, la liberazione, la fondazione della mitica agenzia Magnum, i grandi reportage in India, in Cina, in Russia. C’è anche il nostro paese, con un’incantata veduta di Scanno.
Spero che a visitare questa mostra vadano tanti ma tanti ragazzi. Non solo per il valore artistico e documentale delle foto di Cartier-Bresson, ma anche per la testimonianza di una vita piena e compiuta, fatta di una vocazione vissuta fino in fondo, di un impegno incrollabile verso l’umanità intera.
Conoscevo tante delle sue foto più famose, ma non avevo mai visto i documentari girati nei momenti più bui del secolo scorso. Filmare la dignità e la sofferenza dei feriti, la dolcezza delle infermiere, l’impegno dei chirurghi sotto le bombe, così come documentare le deportazioni degli ebrei francesi gli costò tre anni di prigione. Lui tenne duro e alla fine riuscì a fuggire. In tempo per riprendere la sua Leica e partire per i campi di concentramento appena liberati.
”Sono visivo. Osservo, osservo, osservo, è con gli occhi che capisco”.
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Grazie per questi importanti contributi. Ti seguo e mi piaci molto.
…. ops, dimenticavo il mio nome.
molto interessante, brava
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