Ho passato l’ultima settimana lontana dagli schermi, praticando con passione e altrettanta fatica almeno cinque ore di yoga al giorno. Per il resto, solo aria aperta, camminate e due o tre ottimi libri che ho riempito di annotazioni a matita e di cui vi parlerò a breve. Sono stacchi sempre più indispensabili, che mi allontanano dalla testa perché coinvolgono tutto il corpo, il respiro all’interno e l’aria che mi circonda all’esterno.
Naturalmente mi capita di domandarmi almeno dieci volte al giorno chi me lo fa fare di stare lì a tentare di resistere in posizioni improbabili e in equilibri precari, a cadere e rialzarmi mille volte. Se rimango è perché so la risposta: la coscienza non è solo in quel posto misterioso chiamato mente, è in tutto il corpo e più lo muoviamo e ci lavoriamo, più risorse scopriamo di avere.
Più o meno la stessa risposta l’ho trovata in uno degli ultimi capitoli della Critica portatile al visual design di Riccardo Falcinelli, che ho finito di leggere sotto l’ombra di un grande nocciolo. Se volete una ragione in più per stare lontani dagli schermi almeno per qualche giorno e capire quanto può essere importante il corpo e la sua energia anche nelle attività intellettuali e creative, leggete queste due bellissime pagine di Falcinelli:
Accanto alle esperienze simulative, gli schermi, con la loro riduzione del percepito a pixel, favoriscono un approccio mentale, incorporeo, teorico. Un rimprovero che a ragione può essere mosso loro, riguarda l’eccessiva smaterializzazione delle esperienze.
Un aspetto importante, legato al funzionamento profondo della nostra mente, è il fatto che questa si forma, apprende, inventa in base ai modi che le mettiamo a disposizione. Se passiamo tutto il tempo davanti allo schermo, il nostro cervello finirà per ripetere sempre uno stesso pattern, come il topo imprigionato nel labirinto del laboratorio. Le pratiche artistiche e artigianali hanno invece sempre comportato un uso specifico del corpo e dello spazio: non c’è mai stato un guardare senza un fare. Sarebbe una grave svista non considerare quanto conta il corpo nella formulazione del pensiero creativo. Scolpire, dipingere, suonare non sono attività che si fanno da seduti guardando il soffitto: le idee della scultura non vengono prima di scolpire, ma vengono scolpendo.
Quando prendiamo appunti, quando schizziamo, quando progettiamo, inventiamo o scarabocchiamo, stiamo mettendo in atto pratiche mentali diverse, senza confini precisi tra scrittura, organizzazione e disegno: perché le attività grafiche sono, più in generale, un modo in cui spostiamo il pensiero sul foglio. Per questo, progettare esclusivamente al computer rischia di farci perdere delle possibilità: la rigidezza di immissione della tastiera e del mouse ancora non ci consentono la libertà di pratiche miste, che ci permettono invece carta e penna. Lo stesso touchscreen rimane una procedura piena di vincoli: possiamo fare solo quello che è stato previsto a monte, niente altro.
Nelle attività progettuali, rimane invece fondamentale poter saltare da un uso a un altro: pensate la scarica fisica che comporta per un bambino cancellare un disegno di cui non è contento, l’energia è anche la violenza con cui si nega un segno, seppellendolo sotto altri segni. Anche il cancellare fa parte del mettere le idee sulla carta. Il valore sinestetico del disegno è poi indubbio, sia nella produzione che nella fruizione. La grana ruvida o liscia di un supporto o di un materiale è un’esperienza precisa; calcare sul foglio o muoversi leggeri è subito, mentre lo si fa, fonte e prodotto di uno stato multisensoriale.
Rinunciare al disegno in nome della sveltezza o del progresso digitale comporta rischi enormi: significa rinunciare anzitutto a una pratica motoria, alle potenzialità ragionative che nascono dall’uso del corpo.
Anche se ogni giorno si celebra trionfalmente la creatività, nei fatti però designer, illustratori, architetti svolgono sempre più il loro lavoro seduti come impiegati, secondo posture rigide e schemi ripetitivi. Lo scarabocchiare, il dipingere, l’incollare, lo scattare fotografie (magari in pellicola) andrebbero recuperati non per nostalgia antidigitale, ma per proporre al corpo altre posture e quindi altre idee.
Non è un caso, infatti, che la grafica globalizzata tenda spesso ad assomigliarsi un po’ tutta. Non si tratta di mera influenza culturale, ma di modo di procedere. Tutti i designer compiono gli stessi movimenti, maneggiano pixel: un po’ più a destra; ruotato; di nuovo a destra; abbassato; poi sopra; e taglia; e incolla. Così all’infinito. Il design dovrebbe essere un modo di ragionare, di impostare problemi, di raccontare storie, non può ridursi a maneggiare box o a spostare pixel.
PS A pensare in movimento nei giorni scorsi ero qui. Lo yoga e la scrittura hanno molto in comune. Anni fa ci ho scritto un intero Quaderno.
Come sostiene l’antropologo Giulio Angioni, nel suo libro “Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture”, proprio queste azioni, citate nel titolo stesso, sono ciò che ci permettono di “essere” e, di conseguenza (aggiungo io), di “esistere”. Chissà, forse davvero lo stare troppo a combinare pixel di fronte ad uno schermo finirà con l’annullare gran parte del nostro fare. Anche se, ritengo, quando si fa qualcosa, lo si fa sempre con il corpo, che penso essere strumento attraverso cui cogliamo e interagiamo con l’universo. Sia quello fuori che quello dentro di noi.
La pratica dello yoga, sicuramente aiuta ad avere consapevolezza del legame tra mentre e corpo, creando una relazione che, troppo spesso, per cause culturali (basti pensare alla dicotomia tra lavoro “intellettuale” e “manuale”) siamo costretti a separare.
In altre parole, ho cominciato a praticare yoga perchè a furia di stare seduto a scrivere e studiare, e a furia di compiere lavori pesanti, ho cominciato ad avere grossi mal di schiena.
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