Visitare la mostra di un grandissimo artista in uno dei palazzi più belli del Rinascimento in completa solitudine è un evento rarissimo. Forse non mi era mai capitato.
Anche per questo i quadri di Francisco de Zurbarán, pittore del seicento spagnolo amico e contemporaneo di Velasquez, sono un’esperienza che non dimenticherò. Martedì mattina nelle sale del Palazzo dei Diamanti di Ferrara i monumentali personaggi di Zurbarán mi hanno guardata dritta negli occhi e io ho fatto altrettanto con loro.
Il pittore, del resto, voleva proprio questo. La Siviglia in cui ha lavorato quasi tutta la vita era tutta un pullulare di conventi e di chiese. E anche le famiglie aristocratiche chiedevano agli artisti soprattutto quadri devozionali, che interpretassero al meglio lo spirito della Controriforma raccontando le storie della famiglia di Nazareth, la fede e l’eroismo dei martiri, i dogmi mariani come l’immacolata concezione. Fin qui non molto di nuovo per una romana come me, che ha frequentato le chiese barocche fin da piccola.
Ma il sivigliano fa qualcosa di inedito che per la sua modernità ci lascia senza parole anche dopo quasi quattrocento anni. Il surrealista Salvador Dalì, del resto, ci aveva avvertiti: Zurbarán ci sarebbe parso sempre più moderno e contemporaneo col passare del tempo.
Ho provato a immaginare cosa attraesse così tanto un visionario come Dalì nel pieno della rivoluzione delle avanguardie del primo novecento. Cosa vedesse di così folgorante in un pittore di madonne, martiri e santi.
Forse il fatto che sono persone vere, non idealizzate, ritratti di sivigliani contemporanei, come aveva fatto a Roma Caravaggio. E che queste persone ci guardino direttamente, intensamente, bucando la tela, attraversando i secoli, interrogandoci.
Forse la cura con cui Zurbarán li ha avvolti e vestiti. Una cura maniacale, attenta al minimo particolare, dal ricciolo di lana dell’agnello al bracciale di una martire, dalla superficie opaca di un vaso di porosa terracotta al damasco di una veste, fino ai panneggi bianchi della Madonna o di un frate. Un realismo assoluto, talmente forte da sconfinare con l’irrealtà del sogno.
Forse, ancora, l’assenza di sfondo nella maggioranza delle opere. Su quel bruno che non è più marrone e non è ancora nero, così inconfondibilmente Zurbarán, le forme e i colori spiccano con la forza di tante sculture: i bianchi muscoli tesi del Cristo in croce, i vestiti gialli, viola, rossi, verdi arancio delle sante, i minuti ma parlanti dettagli quali fiori, libri, pagnotte, ciotole. Smalti lucidi in ambienti senza vento come in certi quadri di De Chirico e dello stesso Dalì.
O forse tutte queste cose insieme.
Zurbarán dipingeva in grande, anche se qualche volta ha concentrato la grandezza in quadri piccolissimi. Il gioiello della mostra è una minuscola, semplice natura morta: un piatto di metallo, un bicchiere con dell’acqua, una rosa.Ci mostra queste cose un po’ dall’alto, come farà Cezanne, per farci vedere di più e più profondamente. Le dipinge in modo diverso, perché ogni oggetto ha una diversa consistenza e riflette diversamente la luce: i petali di rosa sono leggeri e lasciano intravedere il bianco della tela, il bicchiere è opaco e compatto, il piatto lucido come uno specchio.
Come tutte le nature morte dei seicento, a partire dalla Canestra di frutta di Caravaggio, anche questa è un piccolo palcoscenico in cui si svolge qualcosa d’altro. Un mistero sacro: l’immacolata concezione. La rosa allude alla Madonna, bianca come il bicchiere, pura come l’acqua, splendente come lo specchio.
Questi densi e misteriosi quadretti saranno decisivi per un grande pittore italiano del novecento, Giorgio Morandi.
Ti capisco bene. È successa la stessa cosa a me con Antonello da Messina, visto alle Scuderie del Quirinale in “notturna privata”! E più di recente con Tiziano.
Per quanto riguarda i “densi e misteriosi quadretti” di Francisco de Zurbarán, erano certamente nella corde di Morandi: ma l’ottica di Morandi, era più spesso dal basso che dall’alto (nelle “mensole” ad esempio).
Ciao Marco, hai proprio ragione sulle mensole morandiane 😉
Luisa
Grazie Luisa. Mi hai fatto sentire lì, con te, ma nello stesso tempo da sola, a questa mostra che probabilmente non potrò andare a vedere. Ho avuto varie volte il privilegio di visitare una mostra o un museo in totale solitudine ed è stata sempre un’esperienza molto bella e speciale.
… Su quel bruno che non è più marrone e non è ancora nero…
Io sono lì, ancora da definirsi. La meraviglia di un divenire…
Grazie per il tuo parlare d’arte.
Poesia irrinunciabile…
Sono capitata qua per caso mentre cercavo qualche informazione precisa su Zurbaràn: volevo riscrivere, inserendo qualche dato storico, le impressioni che ho appuntato di fretta alla mostra di Palazzo dei Diamanti, mentre riflettevo. Le tue parole mi hanno affascinata e trasportata di nuovo nel mondo di emozioni che quelle tele avevano suscitato in me. Grazie, è davvero un piacere sentir parlare d’arte in un modo così personale e profondo!