Di Snow Fall, il grandioso web-documentario del New York Times, si è parlato moltissimo, ma un paio di settimane fa Farhad Manjo ci è tornato su e Internazionale ha tradotto il suo articolo: Una valanga di effetti speciali.
Come Manjo anch’io avevo visto Snow Fall e come lui non ero riuscita a leggere oltre la prima parte. Eppure il testo è scritto benissimo e i multimedia a corredo sono spettacolari, interessanti, originali, documentati.
Snow Fall ha vinto un Pulitzer, è stato accedutissimo e ritwittatissimo, però pare che stiamo stati in molti a non riuscire ad arrivare alla fine. Perché, si è chiesto Manjo? Perché è troppo, o meglio troppo di ogni cosa:
Snow Fall nasce da un nobile obiettivo: aiutare la lettura online degli articoli lunghi (come ho già scritto, pochi lettori arrivano in fondo a un articolo). I grafici hanno arricchito la pagina di elementi pirotecnici convinti che, se i lettori sentono che l’attenzione sta diminuendo, avranno subito a disposizione qualche appiglio per recuperarla, ma invece travolgono il lettore in modo talmente asfissiante da farlo correre via in preda al panico.
Questo succede per due motivi. Innanzitutto, queste presentazioni hanno così tanti elementi multimediali che non si sa dove focalizzare l’attenzione. Inoltre i contenuti extra rimarcano la lunghezza del pezzo: solo gli articoli più lunghi sono elaborati come in Snow Fall. Quando vedete che il grafico ha messo in campo tutti i mezzi a sua disposizione è chiaro che dovrete stare almeno mezz’ora a smanettare. Prima ancora che la storia vi abbia coinvolto, cominciate a considerare se valga la pena investirci tanto tempo. Ce l’avete mezz’ora da perdere proprio adesso? No, non ce l’avete. Siete al lavoro in pausa pranzo. A quel punto o passate definitivamente ad altro, oppure decidete di leggere l’articolo in un secondo momento usando Instapaper o Pocket e, in questo modo, eliminate tutti i contenuti multimediali.
Sono d’accordo e sono arrivata a chiedermi se non mi sarei emozionata di più se avessi letto il solo testo, senza multimedia. Sì, perché lì le emozioni ci sono, a partire dall’attacco:
The snow burst through the trees with no warning but a last-second whoosh of sound, a two-story wall of white and Chris Rudolph’s piercing cry: “Avalanche! Elyse!”
The very thing the 16 skiers and snowboarders had sought — fresh, soft snow — instantly became the enemy. Somewhere above, a pristine meadow cracked in the shape of a lightning bolt, slicing a slab nearly 200 feet across and 3 feet deep. Gravity did the rest.
Ci ho pensato perché invece qualche giorno fa mi sono emozionata, e molto, con qualcosa di assai più semplice e su un tema ormai spremuto come un limone come il 50° anniversario di “I have a dream” di Martin Luther King. A emozionarmi è stato lo speciale interattivo del Guardian: The Speech.
Non mi sono neanche chiesta quanto fosse lungo. Sono scivolata di sezione in sezione, di pagina in pagina senza neanche accorgermene. E pure era lunghetto. Alla fine mi sono chiesta cos’è che lo rendeva così “potente”. Ecco cosa mi sono risposta:
- l’economia, intesa non in senso di privazione ma di scelte precise verso la concentrazione e la semplicità
- i testi brevi ma soprattutto scanditi – proprio come un discorso –, dalla sintassi semplice che asseconda la colonna stretta e di poche righe
- i titoli forti: Lightning in a bottle, The moment, The march, The speech, The aftermath, The legacy.
- la sintonia tra il testo e le immagini, non solo dal punto di vista del contenuto ma anche da quello formale: il testo è sempre a sinistra, dove si legge subito, ma non si sovrappone mai a un elemento importante della foto, anzi sembra che quello spazio sia stato quasi creato apposta (o individuato tra quello disponibile di innumerevoli fotografie)
- si scrolla sì, ma non per leggere, perché ogni testo / pagina è del tutto autonomo, quasi come una slide
- i contenuti testuali non pretendono di raccontare tutto, ma scelgono alcuni punti di vista e illuminano dei particolari: il coinvolgimento dei bambini prima della marcia, gli idranti della polizia che li annaffiano, l’appoggio dei divi di Hollywood, il comportamento opportunista ma alla fine vincente di J.F.K.
- poche citazioni, e non necessariamente di personaggi famosi, come quella di apertura: la sera prima un collaboratore consiglia a Martin Luther King di non ripetere continuamente “I have a dream” in quanto espressione troppo logora e iperbolica; oppure il breve dialogo tra Barack Obama e il bambino che vuole accarezzargli la testa
- i multimedia sono pochi ma brevi e fortissimi: andatevi a rivedere e risentire una giovanissima Joan Baez col vestitino a quadretti e vediamo se non vi vengono i brividi.
Ma la cosa che mi ha colpita di più è la tessitura tra tutti questi elementi: leggo e sullo sfondo vedo e appena ho finito di leggere parte una voce, guardo e una voce mi accompagna. Tutto dosato, tutto connesso in un ritmo che è al tempo stesso testuale sonoro e visivo.
Ho ben presente la differenza tra The Speech e Snow Fall, uno speciale giornalistico l’uno, un documentario l’altro. Chissà piuttosto se i testi lunghi e gli effetti speciali del documentario non si addicono tanto all’atteggiamento vorace e dispersivo con cui navighiamo sul web quanto a quello più immersivo e concentrato con cui esploriamo, leggiamo e guardiamo un’app sul tablet?
Intanto godiamoci le emozioni e l’equilibrio di The Speech, un bellissimo esempio di WED: Writing, Editing, Design, secondo la definizione di Mario Garcìa, il più famoso newspaper designer sulla carta e sul digitale, che onora così l’etimologia della parola testo. Una tessitura di parole, forme, suoni, immagini.
A questa nuova e più complessa tessitura di The Speech manca un elemento fondamentale, che arriva alla fine, come una sorpresa. Dopo il bianco e nero degli anni sessanta, la presidenza Obama è tutta a colori:
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