Oggi su Repubblica c’è una lunga intervista a Tullio De Mauro (la potete leggere per intero sulla Rassegna Stampa della Treccani), da cui estraggo quella che mi sembra la risposta più bella:
“Che cos’è un maestro?
Adoperiamo la stessa parola sia per quello che consideriamo il lavoro più umile con i bambini, sia per quello che trasmette il suo sapere ai discepoli. Roman Jakobson diceva che per diventare dei veri maestri no bisogna essere troppo precisi, ma un po’ confusi.”
Questa volta il decano dei nostri linguisti parla poco della lingua e molto dei suoi maestri e della sua famiglia. Lo ha fatto, in maniera più estesa, alcuni anni fa in un libro che mi piacque molto, Parole di giorni lontani.
Il mémoir del professore è una storia familiare, vista dai suoi occhi di bambino ed evocata da alcune parole rimaste ferme nella sua memoria. Quelle incancellabili, come certe immagini, cui ancoriamo i nostri primi ricordi. Una storia semplice, di una famiglia numerosa nella Napoli degli anni ’40. Nessuna dotta disquisizione linguistica per un racconto nato prima di tutto per sé e per la propria famiglia, ma di piacevolissima lettura e interessante per tutti.
Sarà che io sono particolarmente appassionata delle storie di famiglia e lo sono diventata ancora di più nel tempo. Più le tecnologie avanzano accelerando i tempi, più le nostre scritture si fanno effimere, più penso sia importante conservare le storie di famiglia. Ne scrissi qualche mese fa: Se la corrispondenza muore, lunga vita al mémoir!
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Leggo la tua nota in un momento particolare: la ricerca della mia storia sociale e famigliare attraverso tracce che mi vengono dal passato.
Sono racconti registrati, lettere e, la cosa più preziosa, la voce di mio padre riversata e quindi salvata in digitale da cartoline sonore del 1951.
Sono quindi dentro questa seduzione che ben conosco soprattutto dai racconti di mia suocera che riusciva ad intreccere in modo sublime il privato con il sociale (*_))