Kafka voleva che i suoi libri fossero stampati con caratteri molto grandi, perché la sua sintassi non soffocasse in pagine troppo fitte.
Boccaccio, nel copiare il Decameron, scandì i piani narrativi con capilettera di dimensioni e colori diversi tra le giornate, le introduzioni dei narratori e l’inizio delle novelle.
Petrarca studiò la copia modello del Canzoniere alternando il bianco della pergamena e il nero dei versi, così da avere su pagine contrapposte componimenti speculari.
Proust apprezzò particolarmente la riga bianca che separa gli ultimi due capitoli dell’Educazione sentimentale di Flaubert. Una riga che sta per sedici anni e sigilla la storia.
In Dall’opaco Italo Calvino separa i blocchi di testo con righe bianche per disegnare sulla pagina i terrazzamenti del paesaggio ligure.
Baricco in Oceano mare disegna con una spaziatura a zig zag le onde del mare.
Sono alcuni degli esempi di come il bianco, lo spazio, abbia sempre fatto parte della scrittura, anche della narrazione. Li riporta un bell’articolo di Matteo Motolese sulla Domenica del Sole 24 Ore di oggi, Autore, mettici un punto, dedicato al libro Punteggiatura d’autore. Interpretazione e strategie tipografiche nella letteratura italiana dal Novecento a oggi, di Elisa Tonani.
Raffinatezze in via di estinzione? si chiede Motolese:
Come sa chiunque pubblichi libri, il bianco è una delle ossessioni dominanti degli editori: niente di astratto o poetico, niente horror vacui o paura del silenzio. Soldi: il bianco costa, perché la carta costa. Lo sviluppo dell’editoria digitale sta trasformando anche questo. Lo sappiamo: il testo è diventato qualcosa di mobile, di fluido, adattabile; possiamo scegliere in quale forma leggere ciò che compriamo online, allargando il carattere, ampliando i margini, scegliendo anche, se vogliamo, di leggere bianco su nero. Ciò che prima era riservato solo alle nostre scritture private oggi è diventato il modo in cui anche le scritture pubbliche vengono sempre più condivise.
Dopo secoli, la cultura scritta sta cambiando in modo radicale. Forse per questo l’attenzione per gli aspetti visivi dei testi letterari non è mai stata così forte. Si moltiplicano gli studi sul modo in cui la letteratura nel tempo è stata disposta nella pagina, gli equilibri raffinatissimi tra porzioni scritte e porzioni libere, la grandezza dei caratteri e il loro rapporto reciproco.
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È inevitabile chiedersi quanto queste strategie visive, questa cura editoriale, possa resistere nel mondo digitale. Difficile sottrarsi alla sensazione di osservare specie in via di estinzione o destinate alle riproduzione assistita in uno zoo. Non tanto, o non solo, per il fatto che il testo è ormai qualcosa di mobile sui nostri tablet, ma anche per il fatto che la letteratura stessa (tutta, non solo quella sperimentale dei romanzi in tweet) finirà per adattarsi al modo in cui è destinata sempre più a entrare in circolo. Lo si è già visto nel passaggio dal vinile al cd: ve li ricordate i lati B? Le costruzioni degli album in due blocchi? Archeologia.
Siamo alla fine della “parentesi Gutenberg” e solo all’inizio della rivoluzione digitale. Difficile davvero prevedere come andranno le cose, ma a me piace immaginare un futuro ricco di supporti e strumenti diversi, ognuno adatto a diversi testi, obiettivi comunicativi, situazioni di lettura e persino stati d’animo. Qualche post fa citavo un lungo articolo dedicato a questo tema su Scientific American: il digitale ha tanti vantaggi, la carta continua ad averne altri. Forse spariranno i libri in cui la carta è mero supporto, con i margini risicati che si ingialliscono in un paio d’anni. Non li rimpiangeremo. Ma ce ne sono altri – tanti – che sono oggetti sempre più belli, di cui apprezziamo sia il contenuto sia la regia testuale e spaziale con cui questo prende forma e diventa tutt’uno.
La questione del testo digitale è più complicata di quanto sembra, come ci racconta un altro articolo del Sole di questa Domenica: Mal di scuola digitale, di Roberto Casati. È interamente online e vale davvero una lettura attenta e senza preconcetti. Né da “colonialisti” digitali, né da paladini della carta con paraocchi annessi.
[…] Tra carta e digitale, il destino dello spazio […]