Domenica 7 aprile sulla Domenica del Sole 24 Ore è uscita una ella recensione di Lavoro, dunque scrivo! a firma di Diego Marani.
Sono stata sorpresa e contenta che questa attenzione sia venuta da quello che da tanti anni è il mio inserto culturale preferito, ormai l’unico capace di portarmi in edicola.
È vero che i tuoi libri non li conosci così bene come credi, anche se ci hai convissuto lunghissimi mesi, e che gli altri riescono sempre a vedere qualcosa di cui non eri consapevole. Marani nota che:
“L’autrice in fin dei conti non sembra fare più differenza nella trattazione della questione tra italiano e inglese. Il suo continuo riferimento al mondo anglofono non è tanto ossequio a una lingua dominante in cui legge e scrive ormai gran parte dell’umanità, quanto un approccio al di sopra delle lingue, che vale per qualsiasi scrittura. Una giusta visione, soprattutto quando si parla di internet, dove l’inglese dilaga da tutte le parti e le frontiere tra le lingue si superano con un click. David Crystal ha scritto che imparare una lingua conferisce automaticamente il diritto di modificarla, cambiarla, aggiungere parole, ignorarne dei pezzi, crearne altri secondo la propria volontà.”
È vero. Non ci avevo riflettuto troppo perché sono abituata a muovermi tra due lingue, anche se scrivo in una sola.
Sono state in inglese le mie prime letture sul business writing già all’inizio degli anni 90, sono ormai tutte in inglese le mie letture di lavoro on e off line, sono anglosassoni i modelli che hanno ispirato i miei libri. Per l’ultimo, la mia idea era di fare “Roy Peter Clark in italiano”.
Ma non leggo in inglese – e in altre lingue – solo per imparare qualcosa che mi interessa. Lo faccio anche perché specchiarmi in altre lingue mi fa riflettere sulla mia e negli anni mi ha aiutato moltissimo a impararla meglio.
Lavoro, dunque scrivo! contiene moltissimi esempi. Alcuni li ho tratti da siti e giornali italiani, altri sono miei esercizi di stile, ma altri li ho tratti da testi anglosassoni, che ho tradotto con naturalezza, senza starci troppo a pensare ma divertendomi molto. Insomma, ora lo so, il mio approccio “è stato al di sopra delle lingue” 😉
Se ha funzionato ne sono contenta e continuo così.
“La cosa più viva nel mondo è una lingua straniera” ha dichiarato qualche giorno fa al Corriere della Sera Jhumpa Lahiri, una delle mie scrittrici preferite. Lei – nata in India, madrelingua bengalese, fin da piccola negli Stati Uniti, premio Pulitzer a soli ventisette anni – sta passando un anno sabbatico nella mia città, Roma. A far cosa? A rivedere il suo ultimo libro e a imparare l’italiano.
Credo che stare al di sopra delle lingue, frequentandole tutte con curiosità, possa anche aiutarci a trovare quello che qualche post fa ho definito un tono di voce “naturale come il parlato, preciso come lo scritto” e che si addice ai nuovi media.
Significa abbandonare i nostri illeggibili periodi di dieci righe ma nemmeno abbandonarsi alle frasette smozzicate di tanti blog in inglese, che a guardarli sembrano groviere o tappeti troppo sfrangiati. Non è vero, come mi sento ripetere in ogni aula, che per scrivere più asciutto “l’inglese aiuta”. Basta farlo, punto e basta. Con un vantaggio, secondo me.
L’italiano è più flessibile dell’inglese. Anche con periodi più brevi, possiamo giocare meglio e più liberamente con l’ordine delle parole, la costruzione delle frasi, e quindi con il ritmo.
Potremmo persino scoprire, come scrisse Italo Calvino tanti anni fa, la “vocazione soffocata” della nostra lingua:
La possibilità d’essere una lingua agile, ricca, liberamente costruttiva, robustamente centrata sui verbi, dotata d’una varia gamma di ritmi della frase.
Finisco questo post un po’ autocelebrativo (giuro, è il primo e l’ultimo) con un omaggio a Donata Cucchi (@do_cucchi), l’editor della Zanichelli che ha curato Lavoro, dunque scrivo!
Alla presentazione bolognese del libro ha immortalato me e Giovanna Cosenza, dimostrando di saper curare superbamente, oltre alle mie parole, anche la mia immagine 😉
Su questo blog leggi anche:
Complimenti, Luisa, successo meritato! Ho letto il tuo libro… ;-)))
Anna M.
Confermo la flessibilità dell’italiano con un dato di esperienza vissuta. Quando anni fa traducevo adattavo materiale pubblicitario e di marketing Apple avevo un parametro oggettivo da seguire: il numero di battute di ogni blocchetto di testo (nei file da tradurre ogni blocchetto di testo era codificato e quantificato). Dovevo stare in quell’ambito, 10% in più o in meno per motivi di impaginazione, che non sempre poteva essere facilmente adattata. Quasi sempre, senza troppa fatica, riuscivo a scrivere testi in italiano leggermente più corti dell’originale in inglese.
[…] Al di sopra delle lingue, qualche bella scoperta Indiane Jhumpa Lahiri is back […]
[…] Obiezioni: “È web, non carta!” Vero, ma il web insegna a scrivere mille volte meglio anche sulla carta. “Ma con l’inglese essere più semplici è più semplice!” Falso, e l’italiano ha persino qualche vantaggio in più. […]
[…] questo vi faccio vedere due testi in inglese. Lo faccio per due motivi: uno è per sfatare il pregiudizio che l’inglese sia più adatto dell’italiano per scrivere testi diretti e naturali, l’altro è perché tradurre è a volte il modo […]