Il dispiacere che ho provato oggi nel sapere della morte di Pietro Mennea è molto simile a quello che provai due anni fa quando morì Walter Bonatti. Due uomini che come pochi altri sono stati per me esempi di coraggio, spirito di sacrificio, capacità di stare e farcela in completa solitudine. Mi è preso un senso di nostalgia per un mondo che non c’è più, e anche per qualità che in questo eccitante mondo interconnesso spesso faccio fatica a ritrovare.
Così ho deciso di scrivere oggi un post che aspettava un momento tranquillo.
Ho amato talmente Walter Bonatti che mi sono precipitata a comprare, leggere e guardare un libro bellissimo, curato dalla sua compagna Rossana Podestà: Walter Bonatti, una vita libera. Bellissimo perché abbondante, enorme, con le sue foto più belle, mille particolari delle sue imprese e anche della sua vita personale, gli appunti, la sua macchina da scrivere, gli scarponi rinforzati a mano, i cassetti con le diapositive. Quello che oggi mi aspetto da un libro di carta. Un piacere per tutti i sensi.
Uno dei capitoli più interessanti riguarda la scrittura. Dopo la conquista del Cervino dalla parete nord, Walter aveva 35 anni e davanti un’offerta irresistibile. Il settimanale Epoca gli chiedeva di diventare inviato speciale dalle terre più lontane del globo. Poteva scegliere le mete e metterci tutto il tempo che voleva. Ma doveva andarci da solo, scrivere i pezzi, fotografare e per di più comparire nelle fotografie.
Lui non era uno scrittore, ma decise che sarebbe diventato almeno un buon giornalista.
E conquistò la scrittura, come aveva conquistato le vette. Partì studiando gli scrittori che aveva amato da ragazzo: Salgari, Melville, Defoe, Hemingway e Jack London, che sapeva “fotografare con la parola”. Trascriveva sui taccuini i brani che gli erano più piaciuti, annotava gli spunti e poi cercava di applicarli quando scriveva i suoi pezzi. Senza cellulare e senza computer, senza master e senza webinar, imparò da solo la dattilografia e annotava su foglietti minuscoli all’interno delle tende o della canoa. Fino alla fine ha conservato tutti gli appunti, e le tante bozze, riviste mille volte prima di diventare quei reportage che da bambina mi facevano sognare.
Ho pensato alle memorie di un altro grande scrittore e viaggiatore solitario, Tiziano Terzani. Un altro per il quale la scrittura era una continua conquista, tutt’altro che scontata. E a Pietro Mennea, che amava scrivere e aveva voluto laurearsi anche in lettere.
Mi sono riletta l’intervista che gli fece un anno fa Emanuela Audisio di Repubblica: Per battere il tempo, devi soffrire. È lunghissima, ma oggi la preferisco ai tweet.
Non lo conoscevo personalmente, ma qualche settimana dopo la sua vittoria alle Olimpiadi e il suo primato del mondo, lo vidi passeggiare sul corso di Barletta. Allora c’era ancora l’abitudine allo “struscio”: il camminare lento, andata e ritorno, con giri e rigiri nella via principale costeggiata dai giardinetti. Gli passavamo accanto, osservandolo incuriositi: era quindi lui il nuovo eroe, il “nostro” campione. Lui, che aveva portato sulla ribalta delle cronache mondiali il nome della nostra città. A vederlo, schivo e semplice, nulla nel suo atteggiamento lasciava trasparire che fosse diventata una celebrità. Negli anni a seguire, le sue vicende e interviste mi confermavano il suo stampo pugliese: quel rigore all’obiettivo, la disciplina al limite dell’ossessività, l’ambizione di chi vuole vincere contando solo su se stesso e le proprie qualità, l’ostinazione e l’orgoglio. Punti di forza che, nel confronto con “il sistema” sociale che domina nelle relazioni ambigue (ieri come oggi), diventano debolezza. Purtroppo. Forse, se ci fossero molti uomini come Pietro Mennea il mondo sarebbe migliore. Ma il mondo oggi ha solo perso un uomo migliore.
Anna M. Corposanto, nata a Barletta.
Annamaria, che bello il tuo ricordo…
Grazie.
Luisa