Il mio ultimo fine settimana è stato serrato, strano, apparentemente diviso tra due passioni, che alla fine si sono armoniosamente riunite.
Tra venerdì pomeriggio e tutto sabato un intensivo di yoga dedicato alla riscoperta e al risveglio della parte posteriore del corpo, quella che finiamo per dimenticare perché non la vediamo, tutti protesi verso il fare, l’attività, i progetti, il domani. Invece c’è, e rappresenta il nostro sé più primitivo, inconscio, istintuale. L’interiorità, il puro presente.
Riscoprirlo, portarci il movimento, la coscienza e il respiro significa integrarlo e vivere una vita più equilibrata e più ricca.
Il nostro maestro, Richard Agar Ward, ci ha ricordato che quei movimenti che ci sembravano così innaturali e sui quali ci stavamo tanto affaticando, da bambini ci erano naturalissimi. Prima di voltare le spalle alla nostra schiena, vivevamo il nostro corpo tutto intero: ore e ore a giocare a gambe incrociate, capriole, ponte, ruota…
Sui nostri tappetini stavamo cercando con fatica e nostalgia una naturalezza dimenticata insieme al nostro sé più profondo.
Domenica mattina mi sono svegliata consapevolissima della mia schiena perché i muscoli si facevano sentire tutti, uno per uno. Però ho riempito due borse di fogli, quaderni e pennarelli e me ne sono andata al mio corso di calligrafia con Monica Dengo.
Abbiamo rovesciato tutto sul tavolo e cominciato a disegnare e costruire i nostri taccuini con lo stesso entusiasmo, la stessa gioia di usare le mani, e la stessa nostalgia di ritrovare una creatività perduta – oltre gli schemi acquisiti – che avevo percepito il giorno prima.
Alla fine della giornata li abbiamo sistemati come una città di carta e fotografati da tutti i lati.
Ne eravamo così contenti che abbiamo deciso di condividere quello che facciamo e impariamo aprendo alla lettura di tutti il nostro blog #scriviamoamano.
PS Oggi su twitter @MomentiZen mi ha regalato questa frase: “Da grande voglio essere un bambino”. Davvero, il caso non esiste.
“Da grande voglio fare il bambino” è una frase che mi ripeto da tanti anni…
L’esperienza della giornata che racconti, mi collega a un pensiero di Aminata Traoré “La natura e la qualità del nostro rapporto con il mondo dipendono dalla percezione di noi stessi.” – Apib (Auguri per il blog 😉 – Anna Corposanto
Come ho scritto nei commenti di un altro posto sull’argomento, mi piacerebbe capire come fate a costruire quei bellissimi taccuini. Quando avrai tempo potrebbe essere un’idea un post di istruzioni?
Enrico, temo che spiegarlo in un post sia troppo complicato… ma vediamo se qualcuno di noi ci riesce. Seguici sul blog.
Il caso esiste. Qualche volta ce lo costruiamo 🙂
So di essere considerato spesso “un pochino alieno” e la cosa, in fondo, mi diverte ; ma perché mai, mi chiedo, si devono affrontare maestri yoga e introspezioni profonde, per potersi rimettere a giocare, come è sempre stato naturale in età fanciullesca ? Cosa si guasta nel meccanismo del divertimento, a mano a mano che si acquisiscono “professionalità”, “cultura” e “maturità” ?
La mia risposta è tra quelle che considerate banali, ma io non mollo: secondo me, succede che il “meccanismo del divertimento” adulto si alimenta di aspettative egotiche. Al contrario dei fanciulli che considerano serio il gioco, sacre le sue regole e ci mettono tutta la propria autenticità, i professionisti, colti e maturi “giocano” prendendosi troppo sul serio. E così si finisce per intossicarsi nel corpo, nell’anima, nella mente, nelle relazioni, nel vivere. E allora benvengano esperienze disintossicanti, che aiutano a ritrovare l’essenzialità, l’umiltà e l’autenticità smarrite. Provare per credere 😉
Uhm, sono passati 4 mesi, ho la sensazione che questa risposta sarà “fuori tempo massimo”, ma non mi aspettavo che qualcuno aggiungesse alcunché al mio commento. Bene, supponendo che questo non sia il classico sasso piatto lanciato sull’acqua calma, che rimbalza due o tre volte e poi inevitabilmente si inabissa, proseguirò nel discorso (in fondo si tratta pur sempre di scrittura).
Il tragico passaggio dal gioco al lavoro avviene quando si stabilisce un valore commerciale a quello che prima si faceva per gioco. Metti che tu sia stato un bambino che sapeva riparare le bici : fino a che lo facevi per gli amici e poi via, tutti insieme a pedalare, si trattava di un gioco e il momento di coinvolgimento emotivo era quello del “si va tutti a pedalare”. Poi, accade che qualcuno ti faccia notare che puoi guadagnare dei soldi riparando le bici. Allora lo fai anche per gli estranei : ripari le loro bici, ti fai pagare, ma non vai più a pedalare con gli altri.
Il professionista (anche lo scrittore) diventa un uomo (o perfino una donna) solo e senza amici. Teme che chiunque possa essere un concorrente, così trova amici solo tra coloro i quali odiano la bici, non sanno tenere in mano una pinza e sono (possibilmente) grandi ammiratori dei riparatori di bici. E il professionista si pasce di questa ammirazione, l’unico surrogato del piacere del gioco che gli rimane.
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