È difficile capire e amare la complessità di Raffaello in giovane età.
A vent’anni stravedi per gli artisti misteriosi come Leonardo, tormentati come Caravaggio, rivoluzionari come Giotto. Il divino urbinate è troppo perfetto. Non c’è un’ombra in lui, un’increspatura, un anello che non tiene.
Arriva a Roma in un’estate magica per la storia dell’arte, quella del 1508, in cui il fiero e combattivo papa Giulio II della Rovere chiama in Vaticano Michelangelo e, appunto, il giovane Raffaello.
L’uno ha trentatré anni, l’altro solo venticinque. Sono acclamati in tutta Italia e non potrebbero essere più diversi. Solitario e scontroso Michelangelo, affabile, dolce, amato da tutti Raffaello.
Dal papa ricevono due commissioni destinate a cambiare il corso di tutta l’arte occidentale: gli affreschi della Cappella Sistina e quelli degli appartamenti papali, le famose Stanze di Raffaello.
Lavorano per quattro anni a un piano di distanza l’uno dall’altro. Michelangelo da solo, disteso supino in un corpo a corpo feroce con la pittura. Raffaello circondato da allievi adoranti, sempre più numerosi, bravi e autonomi.
Quando riuscì a vedere il miracolo della Sistina, Raffaello ne fu folgorato e omaggiò il fiorentino ritraendolo nella Stanza della Segnatura nelle vesti del filosofo Eraclito. Michelangelo si limitò a ignorare l’omaggio.
Ma prendere dagli altri per metabolizzare e fare proprio, rielaborare il visto, ammirato e vissuto per produrre qualcosa di nuovo e inatteso era il destino di Raffaello – il suo dharma o il suo daimon diremmo oggi – e in fondo niente assomiglia di più all’idea combinatoria e contemporanea della creatività.
Quando arriva a Roma Raffaello ha già digerito Piero della Francesca e Francesco Laurana, i “vecchi” Masaccio, Filippo Lippi, Beato Angelico, e i “nuovi” Leonardo, Botticelli, Michelangelo, perfino il veneto Lorenzo Lotto. Sotto le superfici calme e pacifiche dei suoi ritratti e delle sue madonne c’è una sottile ma riconoscibile traccia di ciascuno.
Le Stanze – un inno alla sete di conoscenza e all’aspirazione alla bellezza – sono il vertice della sintesi di tutta l’arte che lo precede e contiene i semi di tutto quello che verrà: Tiziano, Guido Reni, Caravaggio, Rembrandt, Rubens, Ingres, Picasso.
Solo Picasso saprà fare altrettanto. Come Raffaello vorace di forme, di colore e di vita, ingurgita tutto, lo digerisce, per azzerare tutto e ricominciare da capo. Ma lo ha fatto in novantanni di vita. Raffaello in soli trentasette.
Per questo ai suoi contemporanei apparve “divino”, perché creava con la facilità del Creatore. Ma lo stesso Picasso amava ripetere che “Leonardo ci promette il Paradiso, Raffaello invece ce lo dà”.
Anche a me Raffaello è parso divino e straordinariamente creativo e moderno questa mattina, ascoltando per due ore la conferenza che gli ha dedicato all’Auditorium Parco della Musica il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci.