Quando hai tanto da fare e non ti va per niente, non c’è niente come Twitter a tentarti.
Tanto, “è solo un’occhiatina”. Vero, però attraverso i tweet a volte incrocio cose veramente belle, che vengono serendipicamente verso di me proprio al momento giusto.
Stamattina un tweet di Faretesto conteneva un nome magico: Pico Iyer, scrittore di viaggi di cui un paio di estati fa avevo letto un bellissimo articolo sul New York Times.
Anche oggi dietro il link c’era un articolo che Iyer deve aver scritto proprio per me. È un inno alla frase lunga come antidoto e “piccola protesta” nei confronti dell’eccessiva velocità in cui siamo immersi:
Oggi il pianeta si muove a un ritmo cui neanche due scrittori capaci di farci intuire il futuro come Salman Rushdie e Don DeLillo riescono a star dietro. Avere accesso a un numero sterminato di informazioni – ben più di quelle che possiamo usare – è un privilegio. Ma ciò che desideriamo davvero è liberarci del sovraffollamento momentaneo per guardare in una prospettiva più ampia. Nessuno scrittore può competere in velocità con i titoli della CNN o i flash dei feed, ma ogni scrittore può cercare di darci la profondità, le sfumature, i “vuoti” che non compaiono sugli schermi.
Rischiamo di perdere intere aree di esperienza e di emozioni. Non riusciremo più a leggerci l’un l’altro come persone se non riusciremo più a leggere le frasi labirintiche di Proust, a insinuarci in quei regni male illuminati dove la memoria sconfina nell’immaginazione, e dove ci nascondiamo agli occhi della persona amata o puniamo quanto ci è più caro. E come potremmo mai sentire gli strati, l’espansione, le mille sfaccettature di Istanbul, la sua ampiezza affollata, senza le frasi di 700 parole con le quali Orhan Pamuk omaggia l’amore della sua vita?
Con le frasi lunghe lo scrittore ci porta con sé, ci costringe a seguirlo “oltre il noto, il normale, il prevedibile, lontano dalla costa, in profondità e misteri dove non riesci a far approdare la tua mente, e spesso nemmeno le tue parole.”
Iyer non è manicheo: trova che le frasi fulminanti di Hemingway contengano infinite ombre e suggestioni, e quelle chilometriche di Henry James siano veri balbettii mentali. Ma la frase lunga, con il tempo che richiede, rallenta i ritmi, fa riaprire la porta della quiete e della riflessione, lì dove lo spazio si apre e appaiono nuove prospettive. Per chi legge e per chi scrive.
Writing undoes me, un altro articolo di Iyer che merita.
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