Oggi ho voluto scegliere in rete poche cose, da ricordare, che dessero all’inizio dell’anno un senso, una direzione, più l’autoaugurio di stare online con più discriminazione e consapevolezza di quanto abbia fatto negli ultimi mesi.
Vi propongo quindi un video, un articolo e un libro.
Il video
Dai relatori delle TED Conference ci si aspetta sempre che siano spumeggianti, veloci, brillanti, pieni di ritmo. I quasi venti minuti di Alberto Cairo, fisioterapista italiano da oltre vent’anni in Afghanistan, sono lenti e lui è disarmante nella sua semplicità e nel suo inglese che ogni tanto cerca la parola giusta. Ma alla fine ero commossa e mi sarei alzata in piedi anche io insieme alla platea tutta intera per ringraziare della storia vera che ha raccontato, un concentrato di dignità, ottimismo e coraggio. Da portare e far vedere in ogni scuola.
There are no scraps of men – Non esistono brandelli di uomini
(la traduzione italiana non c’è ancora, ma si segue benissimo)
L’articolo
Ottimismo, dicevamo. Il Guardian inaugura l’anno con un lunghissimo articolo della neuroscienziata Tali Sharot, autrice del libro The Optimism Bias – Il pregiudizio dell’ottimismo. L’uomo è inguaribilmente ottimista, anche nei periodi peggiori. Immaginiamo il futuro sempre migliore di quello che effettivamente sarà, cancelliamo i brutti ricordi ed esaltiamo quelli buoni. I più ottimisti tra noi godono di migliore salute, vivono più a lungo, se divorziati si risposano con più facilità, guadagnano più degli altri.
Senza ottimismo, coraggio, capacità di immaginare, di rischiare e affrontare l’ignoto non ci sarebbe stata alcuna evoluzione dell’umanità. Oggi gli scienziati queste cose le studiano anche guardando dentro il nostro cervello. E cosa cambia vederle? si chiede la Sharot. Sapere di avere la tendenza innata a essere fin troppo ottimisti può aiutarci a prendercene tutti i vantaggi evitando i rischi che troppa spensieratezza porta con sé.
Il libro
Il libro è un malloppone di oltre 400 pagine che mi sono tenuta appositamente per questi giorni, perché tratta un tema che mi sta molto a cuore e perché il suo autore, mille volte più bravo e capace di me, per certe cose mi assomiglia assai.
Tim Parks è forse il più famoso traduttore letterario dall’italiano in inglese, romanziere e saggista. Vive nel nostro paese da trent’anni e da ben più a lungo lavora con le parole. Un lavoro, il suo, eccitante e bellissimo, almeno finché la tirannia della verbalizzazione fa ammalare il suo corpo e imprigiona la sua mente.
Insegnaci la quiete è il racconto sincero, spietato, brillante e divertente della ricerca della guarigione. Che arriva con la scoperta della cosa più semplice e apparentemente scontata di cui disponiamo (il respiro) e della più vicina e spesso sconosciuta (il corpo). Difficile far tacere le parole che irrompono in continuazione nel Nobile Silenzio. Difficile immergersi nei panorami sconfinati all’interno del corpo immobile. Ma una volta scorto cosa c’è lì dentro, diventa impossibile resistere alla meraviglia e all’avventura dell’esplorazione. Un’avventura che ti fa guarire perché ti cambia per sempre.
Il video di Alberto Cairo è davvero commovemente, l’articolo del Guardian interessante ma personalmente il libro di Tim Parks l’ho trovato orrendo, quasi illeggibile, e soprattutto di una noia mortale. Ovviamente, de gustibus 🙂
E invece la mia esperienza è diversa da quella di Marco: ho letteralmente divorato il libro di Parks, mi è sembrato unire ragione dubbio e tanto quore e sofferenza in un pacchetto anche ironico, a volte.
Provalo, poi mi dirai cosa ne pensi.
Ciao Jacopo,
il libro di Parks l’ho letto fino all’ultima pagina, altrimenti non avrei potuto esprimere il mio giudizio 🙂
Immagino sche scrivendo “Provalo” intendessi prova a leggerlo, cosa che appunto ho fatto…
Devo dire che rivestivo grandi aspettative su questo libro, ma mi ha proprio deluso.
Forse non sono paragonabili, ma ad es. L’ultimo giro di giostra di Tiziano Terzani, che in fondo tratta temi analoghi, l’ho trovato stupendo e davvero toccante.
A me il libro di Parks è piaciuto molto, ma capisco il punto di vista di Marco.
Credo che per entrare nel libro quel certo tipo di dolore lo devi aver provato, anche se non in una misura così forte e drammatica.
Sarà che io la tirannia delle parole la sento molto e, come Parks, spesso mi sembra di non aver vissuto un’esperienza se non la verbalizzo. La trovo una cosa atroce, anche se il risultato lì per lì ti gratifica.
Lo yoga è per me come la meditazione per Parks: il luogo senza parole dove si sperimenta la presenza attraverso il corpo e il respiro. Quando lo scopri non lo lasci più, e ti consola sapere che in ogni momento ti ci puoi rifugiare.
Ammiro molto Parks per il coraggio e la sincerità, anche se non so come abbia fatto a rimettere il tutto in parole. Io da anni resisto alla tentazione di aprire un blog di yoga proprio per non sottoporre alla verbalizzazione anche questa mia grandissima passione che, anche parlandone molto poco, sostiene tutte le altre, compreso questo blog.
Luisa
Anche io – da studente di Giurisprudenza – sono ingabbiato dalle parole. Del resto noi stiamo sempre lì a chiederci cosa debba significare una frase, un periodo, una parola.
Poi come persona razionale, e uomo razionale (è peggio) essere e sentire e basta è ancora più difficile.
Il primo proposito dell’anno è approcciarsi alla meditazione, provare un esperienza. Sentirla e basta.
Sarà così diverso da un altra visione religiosa del mondo che inizia com “al principio era il verbo”?
Grazie Luisa.
Avrei voluto precisare nel mio commento che in effetti faccio una enorme fatica a capire lo yoga (e il respiro in particolare). E’ strano, perché sono molto attratto e interessato alle religioni e alla spiritualità delle regioni asiatiche, ma per lo yoga ho proprio un blocco. Forse è per questo che il libro non mi è piaciuto.
Inoltre nel libro di Parks ho trovato una sorta di contraddizione. Credo che per affrontare correttamente le discipline orientali sia necessario in qualche modo abbandonare se stessi e lasciarsi andare nel tutto, invece Parks in questo libro è sempre l’ombelico del mondo, ha un atteggiamento egocentrico e ha una stima spropositata di sé, altro motivo per cui ho trovato il libro estremamente fastidioso.
Come dicevo prima a Jacopo, forse non sono paragonabili, ma ad es. L’ultimo giro di giostra di Tiziano Terzani, che in fondo tratta temi analoghi, l’ho trovato invece stupendo e davvero toccante. Terzani parte con un atteggiamento molto critico e non crede nelle esperienze che sta per affrontare, ma alla fine trova una straordinaria spiritualità e serenità, che lo rendono capace di affrontare a mente tranquilla e con una invidiabile serenità l’esperienza finale della morte.
Terzani è inarrivabile, sono d’accordo, per la scrittura ma soprattutto per l’umanità. Parks mi ha interessato, ma non lo rileggerei.
Invece a volte riprendo i libri di Terzani e li apro a caso, certa che ci troverò sempre qualcosa di importante e di bello.
Quanto allo yoga, cominciare dal respiro è difficile. Prenderla prima dal lato fisico è più semplice, almeno per me lo è stato. Le posizioni sono eleganti, belle e ti fanno sentire subito meglio. Lo yoga non si deve capire prima, si deve provare e praticare.
E’ una strana coincidenza: ieri, poche ore prima del mio compleanno, ho letto il post che parlava del libro di Parks (che già conoscevo come autore) e, non so perchè, anche se non c’era scritto da che malattia era afflitto sono rimasto subito incuriosito. Allora ho cercato su google spinto da una sorta di sesto senso e ho scoperto che il suo male è lo stesso che mi tormenta da 5 anni e che mi ha cambiato completamente la vita. Sono una persona molto razionale (un po’ come Parks :-)) e non credo al destino, però spero che questa serie di coincidenze siano un segno, spero positivo, di una possibile svolta positiva alla mia situazione.
Grazie Luisa per la segnalazione.
Antonio, anche io sono terribilmente razionale. Fin troppo. Ma anche lo yoga serio lo è, non ha niente a che fare con le scemenze new age!
E non credo neanche al destino, ma credo nella nostra capacità – in particolari momenti – di cogliere i segnali che la vita ci offre. Quando riusciamo a farlo, vuol dire che per quel messaggio siamo pronti 🙂
Ti auguro di uscire dalla situazione che ti fa soffrire, ma proprio chi non crede al destino può credere alla propria personale capacità di farcela.
Luisa
Luisa, grazie per le tue belle parole :-).
Antonio