Ho passato un buon numero di anni convinta che “se” non volesse l’accento sulla “e” quando seguito da “stesso” (così avevo imparato a scuola).
Da quando ho capito come stanno realmente le cose, mi regolo a seconda dei contesti: pur sapendo che è corretto, anzi correttissimo, ho deciso di non metterlo in questo blog, né in ciò che scrivo per i miei clienti.
Se mi guardo intorno, noto che non si usa quasi più, tranne che nei libri i cui consapevoli autori se ne fregano dell’andazzo imperante e mettono l’accento lì dove va messo.
Mi ha quindi molto colpita l’accento sul titolo di un articolo a firma di Michele Salvati sul Corriere della Sera di oggi. Ammettiamolo: sul titolo di un quotidiano non è bellissimo, ma il punto non è questo. È che o lo metti sempre o non lo metti mai.
Anche il Dizionario di stile e scrittura di Beltramo e Nesci, edito da Zanichelli (che è la casa editrice per cui lavoro, diciamolo per trasparenza), consiglia di scrivere sé stesso: non accentarlo introduce un’inutile variante di parola.
Da quando l’ho scoperto, in accordo con i curatori, mi sono regolata in questo senso nella redazione delle Chiavi di lettura e infatti quelle appena uscite hanno il loro bel sé stesso e non ci importa se suona strano.
Semplificando molto, mi viene da pensare che solo la letteratura possa permettersi di compiere uno scarto rispetto alla correttezza grammaticale.
Per chi scrive testi di altro tipo credo che il rigore sia un valore fondamentale, perché dalla serietà nel maneggiare i dettagli si costruisce la capacità – la “stazza” – per trattare con serietà anche la sostanza.
E da lettrice valuto la credibilità di un testo anche da questi aspetti: guai se, in un articolo su Giovanni Paolo II, trovo scritto Wojtyla anziché Wojtyła (cioè senza la “elle” tagliata)!