Non so se avrò il tempo e il coraggio di avventurarmi nelle quasi 400 pagine di The secret life of pronouns: what our words say about us, dello psicologo e linguista James W. Pennebaker, però quello che ne ho letto in questi primi giorni dopo l’uscita mi ha incuriosita assai.
Pennebaker e il suo gruppo di linguisti computazionali hanno analizzato migliaia di documenti – email, annunci di Craiglist, test di ammissione all’università, discorsi di politici, canzoni di Lady Gaga, romanzi famosi – per arrivare alla conclusione che i nostri sentimenti ed emozioni non si rivelano tanto attraverso i verbi e i sostantivi, ma attraverso le parole minime, cui di solito non facciamo caso. Pronomi, preposizioni, articoli, prefissi.
Come ci è arrivato è una storia affascinante, che l’autore racconta in una lunga intervista appena pubblicata su Scientific American.
Negli anni 80 condusse una ricerca per capire se mettere per iscritto i propri disagi e turbamenti emotivi potesse migliorare la salute fisica. Se ci fosse insomma anche una scrittura terapeutica e soprattutto se dai testi si potessero prevedere i miglioramenti.
Sì, la salute migliorava, ma la vera sorpresa fu la scoperta del principale indicatore dei miglioramenti: i pronomi.
Da allora, Pennebaker si è messo a studiare i pronomi sui testi più diversi. Dalla sua personale corrispondenza email ai carteggi e alle opere di scrittori e artisti per coglierne le dinamiche psicologiche e relazionali. I testi di coppie famose come Elisabeth Barret e Robert Browning, Ted Hughes e Sylvia Plath, sono stati passati al setaccio e i risultati confrontati con le loro vicende di vita.
Le ricerche smentiscono parecchi luoghi comuni.
Non sono gli uomini a usare più spesso il pronome personale Io e parole più legate alla sfera cognitiva. Le donne usano sì parole più inclusive e sociali, ma dicono Io e usano parole legate alla sfera cognitiva molto più degli uomini. Le parole più emozionali non sono una prerogativa femminile ma si dividono equamente tra i due generi. E gli uomini usano gli articoli più spesso delle donne. Perché? Perché gli uomini parlano più delle cose, le donne delle persone. E per parlare di relazioni umane in realtà usano più parole cognitive che emotive.
In una relazione gerarchica è la persona più in basso che scrive più spesso Io. E, nonostante la depressione, hanno fatto lo stesso i poeti che hanno concluso la loro vita con un suicidio.
All’università riescono meglio gli studenti che negli esami di ammissione hanno usato più sostantivi rispetto ai verbi e ai pronomi. Una costante negli anni e in tutte le università coinvolte nelle ricerche. I sostantivi riflettono la tendenza alla classificazione, mentre si privilegiano verbi e pronomi quando si raccontano storie. L’università, evidentemente, premia più i classificatori che i narratori.
E com’è che la vita segreta dei pronomi ci si svela solo ora? Perché il nostro cervello non è programmato per ascoltare le paroline “di servizio”, che restano così al di fuori della consapevolezza. I software invece sì.
"In una relazione gerarchica è la persona più in basso che scrive più spesso Io. E, nonostante la depressione, hanno fatto lo stesso i poeti che hanno concluso la loro vita con un suicidio."
E' un pensiero che fa riflettere.
Grazie Luisa,
Anna.
La forte presenza di pronomi nel parlato potrebbe rivelare un certo atteggiamento infantile che persiste da adulti, soprattutto nelle relazioni interpersonali?
Questa domanda non è certo conseguente a studi scientifici, ma frutto di due mesi passati con la mia piccola nipotina.
"Io , mio , a te" è stata la colonna sonora della mia estate, altro che vita segreta dei pronomi..
Chissà se Pennebaker ha dei nipotini, i pronomi non sarebbero passati inosservati.
G.
Mmh, I wonder if Pennebaker is now going on the motivational-speaker circuit, trying to get businesses across America to say "we" instead of "I" – or maybe he's planning to being the Repubblicans and the Democrats together that way….
L'ultimo commento "anonimo" era in realtà mio.
Saluti,
Isabella