Ho cominciato un curioso libretto, attirata dal titolo e dalle ottime recensioni. È How to write a sentence. And how to read one. L’autore, il critico letterario e blogger del New York Times Stanley Fish, colleziona belle frasi come altri minerali, farfalle o scatole di fiammiferi.
Le rilegge e rimira talmente tanto da conoscere ormai i più intimi meccanismi di frasi lunghe appena dieci parole, che siano di un oscuro insegnante o di un grande scrittore, da John Updike a George Elliot.
Da appassionato collezionista, li racconta con passione.
Ma perché proprio le frasi?
Una frase non promette niente di meno che teoria e pratica nell’organizzazione del mondo. È ciò che fa il linguaggio: organizza il mondo in unità gestibili e in qualche modo artificiali, che possono essere facilmente popolate e manipolate. Se riesci a scrivere una frase in cui soggetti, azioni e oggetti sono legati l’uno con l’altro nel tempo, nello spazio, negli umori, nei desideri, nelle paure, nelle cause e negli effetti, e se riesci a delineare queste relazioni con precisione al lettore, per espansione ed estrapolazione puoi scrivere di tutto: un paragrafo, una tesi, un saggio, un trattato, un romanzo. “Non c’è niente in un testo – scrisse Roland Barthes – che non si possa trovare già in una frase”.
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Una frase da ricordare, nell’articolo di Fish: “form comes first, and content follows.”
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