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risali negli anni

31 Dicembre 2010

Jean Baptiste Chardin, mago degli oggetti

“Gli oggetti si compenetrano tra di loro, non cessano mai di vivere, si espandono intorno a se stessi con gli sguardi e con le parole.”

Sembra la didascalia di un quadro del periodo più cubista di Braque e Picasso.
Invece è stata scritta almeno due decenni prima e l’autore, Paul Cezanne, si riferiva a un artista che ha riempito dalla sua posizione un po’ eccentrica e appartata tutto il settecento francese.

Jean Baptiste Chardin, cui è dedicata una splendida e completa mostra al ferrarese Palazzo dei Diamanti, non potrebbe essere più lontano dalla pittura rococò, i lussi di Versailles, le ciprie di Fragonard, le mitologie di Watteau. Lui appare senza tempo: prende il testimone della poesia delle cose e della concentrazione pensosa delle persone direttamente da Vermeer e si slancia in avanti. Molto in avanti. Verso Cezanne, appunto, Picasso, Braque e il nostro Giorgio Morandi.

Ciò nonostante ebbe la fortuna di essere amato e profondamente capito anche nel suo tempo. L’enciclopedista Diderot lo capì meglio di tutti:

“Rieccovi, dunque, grande mago, con le vostre composizioni mute! Come parlano eloquentemente all’artista! Quanto gli dicono sull’imitazione della natura, la scienza del colore e l’armonia! E l’aria, come circola intorno a quegli oggetti!”

“Davanti a uno Chardin ci si ferma, come d’istinto, alla maniera del viaggiatore che, stanco del suo andare, si siede, quasi senza accorgersene, non appena trova un letto d’erba, silenzio, acqua, ombre, frescura”.

Al mago Chardin riesce infatti un sortilegio impossibile: parlare di vita, acqua, aria, ombra, farle profondamente vedere e sentire, attraverso il genere che ancora chiamiamo “natura morta”.

Una vita infusa dentro oggetti semplici e quotidiani, quelli che si trovano in cucina o al massimo in un sobrio salotto borghese: mele, pere, bicchieri mezzi pieni di acqua o di vino, una tazza con decori cinesi, due panini, una brocca, una zuppiera. Niente tovaglie ricamate, niente tende o drappeggi. Solo loro, come attori su un palcoscenico. O oggetti di meditazione.

Ti metti davanti a queste tele di poche decine di centimetri per lato e non te ne andresti più. Il perché, dopo un po’ cominci a intravederlo: sta nel rigore e nella perfezione di quella solo apparente casualità compositiva. Provi a immaginare il quadro senza le due ciliege in primo piano o con il bianco bicchiere d’acqua appena spostato, o la bambina senza il volano in mano.

Togli una cosa, solo con la tua immaginazione, e l’intero quadro svanisce. Gli oggetti ti crollano addosso. I colori – semplici azzurri, rossi, bianchi – non si rispondono più e il quadro da silente diventa muto.

Fortuna che riapri gli occhi e la magia torna intatta: tutto è ancora al suo posto e il quadro pulsa di vita e di luce. Il cucchiaino luccica in attesa del tè in arrivo, un petalo è caduto dal vaso, il vino è stato appena versato, il coltello poggiato. Ma nulla è semplice come sembra: che ci fa sulla tavola quel misterioso pacchetto grigio legato con lo spago?

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