Voglio fare tali progressi che la gente possa dire delle mie opere: “… sente profondamente, sente con tenerezza…”
Voglio fare dei disegni che vadano al cuore della gente.
Scriveva così Vincent Van Gogh all’amatissimo fratello Theo, che lo sostenne finanziariamente e psicologicamente per tutta la vita.
Stamattina alla mostra di Van Gogh al Vittoriano a Roma non ho solo ammirato oltre settanta capolavori, ma per la prima volta mi sono soffermata sull’atteggiamento fraterno e affettuoso che le persone hanno nei confronti di questo artista ardente e sfortunato. Sentono che parla allo stesso tempo agli occhi e al cuore di ciascuno.
E non ha bisogno di farlo solo con i suoi autoritratti dallo sguardo intenso. Gli bastano gli orti di Montmartre, lo scorcio di un uliveto, un festoso ristorante parigino che attende i suoi ospiti, un campo con le donne chine a raccogliere il grano.
Semplici luoghi, spesso senza anima viva, eppure veri elettroanimogrammi che registrano prostrazione, angoscia, solitudine, ma anche compassione e gioia di vivere. Quadri a cuore aperto.
Unici strumenti delle delicate operazioni la pennellata e il colore.
La prima è puntino, filo o frustata; stagna come acqua ferma, muove come un’onda un campo di grano, si impenna improvvisamente e avvia nel cielo un ingranaggio di nuvole e stelle.
Il colore si stacca dalle cose e le reinventa da capo. Così il seminatore cammina in un campo blu sovrastato da un cielo verde. Verde, come il viso del giovane giardiniere sotto il cappello di paglia (ma è sereno, e tutt’altro che livido). E i piloni del ponte sulla Senna? Un trionfo di falci rosa e turchese.
Ma nulla sembra bislacco, strano o esagerato: tutto invece plausibile, credibile, commovente e terribilmente vero. Guardiamo lì dentro come in uno specchio non della nostra esteriorità, ma dei sentimenti che abbiamo dentro. E li riconosciamo tutti, uno per uno.
Van Gogh muore nel 1890. Ancora poco più di vent’anni e arriverà Kandinsky con il suo Lo spirituale nell’arte a sbrogliare quella esplosiva matassa cromatica, così incomprensibile per i contemporanei di Vincent e così ricca di risonanze per noi.
Visitando questa mostra, più che nei grandi musei olandesi, ho sentito la profonda umanità di Van Gogh, la sua reale partecipazione al male di vivere della povera gente che lavora nei campi, la sua capacità di esprimere – attraverso colori e tratti davvero nuovi – un'adesione sconfinata alla natura che lo circonda e un'energia che si irradia fino a noi, ma che i suoi contemporanei non seppero cogliere. Van Gogh ti trascina con la sua purezza in dimensioni lontane dalle convenzioni della buona società, animato da una tensione fortissima verso la vita vera, fatta di sentimento e colore. Irrompe nella pittura moderna e la rivoluziona in soli dieci anni. Mi ha ricordato San Francesco.
Con le sue lettere Vincent Van Gogh dimostrò di essere, oltre ad uno dei più innovativi e originali pittori del suo tempo, un abile scrittore. Dalle sue parole si può intuire con quanto trasporto e sofferenza realizzasse quei quadri. Fu proprio grazie all'amore ossessivo che lo legava a suo fratello Theo che poté continuare fino al giorno del suo suicidio.
Vincent ha lasciato un messaggio importante, ci ha insegnato che non è importante il mezzo usato per trasmettere l'unica ed assoluta forma d'arte che è l'amore.
Alcuni studiosi hanno detto che l'aiuto ecnomico del fratello in realtà fosse la sua rovina perché gli permise di sopravvivere continuando la sua ricerca in maniera sempre più ossessiva e perdendo definitivamente il contatto con il reale, con un lavoro più redditizio (Van Gogh vendette soltanto un quadro, la vigna rossa, ad una collezionista inglese, in tutta la sua carriera, anche perché la maggiorparte erano conservati gelosamente a casa di Theo), la possibilità di farsi una famiglia, una vita "regolare" insomma.
Magari riuscissi a farlo anche io…
Mostra emozionante, come tutte quelle su Van Gogh.
Frank Iodice
Forse è il pittore più amato e leggendo la breve ( semplice e insieme profonda) analisi di Luisa si capisce perchè.