Alexander Calder era un omone. Le fotografie che Ugo Mulas gli scattò negli anni sessanta ce lo mostrano intento al lavoro negli immensi spazi del suo laboratorio con grandi lastre metalliche davanti e rotoloni di fil di ferro agganciati al braccio, oppure mentre monta un’opera in piena campagna insieme agli operai o in una pausa con un fiasco di vino davanti.
Un artigiano dall’inizio alla fine, che in pochi anni con stupore e allegria è riuscito a rivoluzionare la scultura così come la conoscevamo da millenni. Il segno invece del volume. Il colore invece del monocromo. Il movimento invece dell’immobilità.
Era qualche decennio che gli artisti provavano a rompere i confini della scultura: Degas con le sue ballerine in cui l’aria sembra modellare il bronzo, Medardo Rosso con la morbidezza della cera, Boccioni con le sue forme uniche nella continuità dello spazio, e soprattutto Picasso, che componeva le sculture con quello che trovava.
L’omone prende le mosse proprio dalla leggerezza di Picasso, ma il grande balzo verso le sculture che si muovono insieme al vento lo fa tutto da solo.
Era cresciuto in una famiglia creativa, con il padre scultore e la madre pittrice, che lo avevano incoraggiato a costruirsi i giocattoli con materiali poveri e la forza dell’immaginazione.
A soli undici anni in occasione del Natale del 1922 crea un piccolo capolavoro, Dog and Duck, un cane e un’anatra fatti di una sottile sfoglia di ottone piegata. Continua con il filo di ferro: nascono un zoo, una galleria di ritratti, un intero circo. Un unico filo per sculture di aria.
L’aria è il grande collaboratore di Calder, il più fidato. Presto la leggerezza di quel filo non gli basterà più e comincerà ad appenderci frutti, stelle, pesci, palle di neve, foglie, tralci, fiori e i mille dettagli di una natura reinventata. A quel punto basta una brezza, un refolino per far muovere l’intero albero, che cambia continuamente forma e proietta il suo teatro di ombre contro la parete che c’è dietro. Per chi ci gira intorno, uno spettacolo che non finisce più.
Stamattina, mentre giravo intorno ai mobile di Calder (fu il dadaista Duchamps a battezzarli così) nel Palazzo delle Esposizioni di Roma mi sembravano le versioni aeree dei giardini incantati di Klee.
Anche lo svizzero aveva reinventato la natura e fuso in nuove creature flora, fauna e minerali, ma lo aveva fatto in quadri minuscoli, come esperimenti d’avanguardia portati a termine in cantina. L’americano disseppellisce tutto, lo porta alla luce, lo fa grande grande e cantare a squarciagola. I suoi spazi sono i giardini, gli orizzonti della campagna francese, le piazze cittadine. Nel 1962 montò il suo immenso Teodelapio in pieno centro di Spoleto: architettura o sogno di un grande animale preistorico piombato tra noi? Gli artisti e i critici italiani non si fecero troppe domande, si innamorarono perdutamente di lui.
Ci si innamora anche in questa ricchissima mostra romana, da cui non andresti più via. Perché documenta l’intera opera di Calder attraverso disegni, sculture e gioielli che difficilmente si trovano riprodotti sui libri.
Perché è un mondo intero, dove ti ritrovi di fronte all’essenza delle cose, come il ritmo di un tralcio di vite, una grande lenticchia di bronzo, un pesce con tutti i colori dell’acquario più bello che si possa immaginare.
Perché quel mondo cambia in continuazione, e fiori e foglie sussurrano un inno alla vita e alla bellezza del momento presente.
E infine, perché le fotografie di Ugo Mulas sono una mostra nella mostra, uno sguardo che a ogni foto rende più acuto il nostro.
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La natura come forza motrice dell’arte. Più che scolpire le cose, si tratta di modellare l’aria e non in forma definitiva ma in una imprevedibile serie di soluzioni. Un piccolo intervento per una grande arte.
Girellare nel suo blog mi rende sempre soddisfatta, trovare questi splendidi post, così meravigliosamente (qui l’avverbio fa la differenza) semplici mi rende felice.
elisabetta