“Importa tanto un accento?” mi sono chiesta per l’ennesima volta stamattina di fronte all’altissimo livello di sciatteria editoriale raggiunto dall’edizione online di Repubblica.
Sarà che ormai appena salto su dalla sedia mi vedo di fronte Andrea Debenedetti (che non conosco e non ho mai visto, quindi lo immagino come un occhialuto professore che sicuramente non è), che mi addita e mi mette senza tante discussioni dalla parte dei neo-crusc.
A meravigliarmi non sono tanto i frequenti refusi (certo che nei titoli in home page una certa impressione la fanno), spiegabilissimi con i ritmi implacabili di una redazione online, quanto la questione degli accenti sulle “e”. Su Repubblica ormai acuto e grave pari sono, come viene viene.
Ed è un mistero: per un giornalista o un copy gli accenti non dovrebbero nemmeno essere oggetti di attenzione, ma automatismi puri, come la freccia quando devi girare.
Importa, insomma, un accento? Una risposta la dà Carol Fisher Saller, senior editor al Chicago Manual of Style e autrice di The subversive copy editor, che ho letto in questi giorni:
Importa, sì, importa. Perché in un testo errori formali, imprecisioni e incoerenze minano l’autorevolezza dell’autore, distraggono e confondono il lettore, e si riflettono sulla percezione e la reputazione dell’azienda o del giornale per cui scrive. Con il suo lavoro, il copy editor crea o rafforza una relazione con il lettore che si basa sulla fiducia. Fiducia che nasce anche dalla piacevolezza e fluidità del testo, dal passare con leggerezza di idea in idea, di immagine in immagine, senza rallentare o fermarsi ogni momento a un semaforo rosso.
Un’altra risposta – ma vale soprattutto per me – me la do sempre da sola. L’attenzione ai particolari è una forma di disciplina e concentrazione, comune a tutte le attività meditative. Gli accenti e la punteggiatura se scrivi, il respiro se mediti, il ritmo tallone-pianta-punta se cammini con consapevolezza.
The subversive copy editor è un librino piacevole e rigoroso, ma anche molto tollerante. Non ci troverete dentro le regolette del buon copyediting, ma l’esperienza concreta di un’editor nelle sue molteplici relazioni con gli altri: il capo, i collaboratori, i lettori, gli autori, i freelance, se stessa. Dove attenzione e tolleranza vanno di pari passo.
Io ci ho trovato anche il piacere sottile e un po’ sadico di mettere mano ai testi altrui, come esprime così bene la citazione di apertura da H. G. Wells:
No passion in the world is equal to
the passion to alter someone else’s draft.
La Fisher Saller è più dolce, ma altrettanto acuta, a proposito del suo lavoro:
It is your privilege to polish a manuscript without the tedium and agony of producing it in the first place.
Sono d’accordo, è una questione di disciplina, come scrivere “po’” e non “pò”.
Nella forma orale preferisco il “venerdì” al “vènerdi” ormai tanto di moda.
Arnaldo
P.s. Ma perché “librino” e non “libriccino”?
sono automatismi che qualsiasi persona che scrive per mestiere DEVE avere. Se leggo un testo pieno di errori penso subito alla superficialità di chi l’ha scritto.
Ebbene sì, sono una neocrusc, tollerante ma neocrusc. Da quando l’ho scoperto sto molto meglio (grazie per la segnalazione del libro di Debenedetti). Devo dire che anche il congedo maternità aiuta: non sono più costretta a combattere col mio capo per fargli capire che un articolo non può andare online prima di essere stato riletto, che “perché” e “perchè” non sono la stessa cosa; che l’apostrofo accanto alla “e” maiuscola non può sostituire un accento; che se ci sono riferimenti alLA settimana prossima, l’articolo ci vuole, eccome. Per me è una questione di rispetto nei confronti dei lettori; per lui andare online il più velocemente possibile, rimandando le correzioni (quando va bene) ad un secondo tempo significa dimostrare di saper tenere il passo con le news. Io soffro di più per un errore che per il fatto di essere stata informata alle 17:29 invece che alle 17:25.
Dorotea
Urka uno non fa in tempo a chiedere ed ecco il pezzo sugli accenti, ma grazie!
^_^
Me lo segno quel libro.
Ora non posso, ma prima o poi lo piglio.
Sono un’insegnante e non sai quanto è duro far capire ai ragazzi venuti su senza troppe regole , e non solo per quanto riguarda la lingua, che scrivere corretto si deve: spiego sempre il perché e mostro loro tanti esempi di sciatteria, ma se anche nei TITOLI di storici quotidiani nazionali ci sono errori…allora è davvero dura.
Claudia
Io mi pongo le stesse domande ogni volta che vedo scorrere le notizie nel sottopancia del TG2. Basta guardarsi (se se ne ha il coraggio) una sola edizione per trovarci apostrofi al posto degli accenti (forse non sanno che esistono anche le maiuscole accentate?), zero in sostituzione di alcune O, parole e virgole senza spaziatura, spazi doppi, segni di interpunzione distribuiti casualmente. E quando l’ultima notizia si appresta ad uscire dallo schermo, due bei trattini ondulati opportunamente spaziati a chiudere il tutto. Allora è davvero così importante un accento?
Demetrio
È l’idea stessa di errore ad essere progressivamente scomparsa, per via della sua connotazione biasimevole, che richiama la nozione di castigo, divenuta sospetta.
Siamo o non siamo un popolo di cattolici, finti ed ipocriti?
L’abominevole idiozia del neo crusc è un modo falsamente popolare di far diventare normale qualsiasi deviazione. Del resto, come è già stato fatto notare, le distorsioni lessicali mediatiche sono così tante che pochi vi fanno caso, se non quasi nessuno.
Questa vera e propria rassegnata erosione del linguaggio alcuni la attribuiscono a una non meglio dimostrata esigenza di economia ed efficacia comunicativa, e va di pari passo con la trasandatezza del pensiero e del comportamento, riscontrabile in tutte le manifestazioni di un popolo in irreversibile declino che ha accettato di essere guidato da incapaci e incompetenti.
Val più la pratica? Quale pratica?
Sono fiero di essere un “parruccone” (parola, peraltro, oltre modo desueta): la grammatica non è l’ultimo requisito per saper scrivere, ma il primo, e basta leggere coloro che sostengono il contrario con i loro strafalcioni e la loro inefficacia comunicativa per convincersene.
E’ vero, anche nell’edizione barese della Repubblica si rinvengono frequentissimi errori di grammatica che disturbano la lettura e non trovano alcuna giustificazione.
Vorrei cogliere l’occasione per scusarmi con Lei per le mie “intemperanze giovanili” nei commenti anonimi al Suo blog e per complimentarmi.
Certe volte penso che leggerei i Suoi post anche se scrivesse di argomenti ancor più lontani dai miei interessi, per le rassicuranti sensazioni di equilibrio, sobrietà e competenza che la sua scrittura mi dona.
Complimenti!
Lei è davvero bravissima, una vera stella del web.
Saluti, J.
Un punto fondamentale, credo, nei confronti dell’editoria attuale, dove anche nelle edizioni Einaudi ti trovi davanti a refusi e incongruenze. Non parliamo poi delle traduzioni, anche di autori famosi, che tu a leggerle pensi o che sei scemo o che ti stanno prendendo per il culo. Invece è la traduzione! Tutto sottopagato, risultato di … assicurato. Tanto poi ci pensa il marketing a rimettere le cose a posto, a fregare i lettori e a garantire i guadagni. Una situazione deplorevole. Certo, non dico che si debba fare di tutta l’erba un fascio, ma quando il pesce puzza in testa per quanto tempo il resto del corpo può rimanere profumato?
Penso che tu abbia ragione…sai?
Non credo che sia giusto ,o per lo meno corretto,dal punto di vista grammaticale commettere certi errori.
Sono sicuro che possa succedere ,anche se certe cose ,non dovrebbero proprio passare .
Per lo meno nei quotidiani!!!
Saluti
Al.
P.S.spero di aver risposto correttamente…
non sono molto esperto di blog…
ancora saluti
Al.
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[…] Saller è una che di editing e correzioni se ne intende davvero: ha scritto un libretto delizioso, The Subversive Copyeditor e dirige una delle guide di stile più importanti del mondo, The Chicago Manual of […]