Se fosse possibile mettere un’intestazione, una breve introduzione, una dedica a un post, a quello che sto scrivendo premetterei un foglietto sul quale nel 1925 il pittore catalano Joan Mirò stese una piccola pennellata, un batuffolo azzurro, e sotto scrisse una breve frase: questo è il colore dei miei sogni.
Come tanti artisti delle avanguardie del novecento, dai futuristi a Klee, anche Mirò amava mescolare continuamente la parola e l’immagine.
Senza alcuna opposizione, senza conflitti, anzi in una pacifica convivenza nello spazio.
Vi è mai capitato di leggere qualcosa, anche molto breve, che ne illumina molte altre, infila pensieri sparsi uno dietro l’altro, dà improvvisamente un senso a comportamenti e predilezioni apparentemente irrazionali e un po’ blislacchi? A me è successo, proprio questa settimana, e l’illuminazione riguarda appunto la relazione tra parola e immagine.
Io le parole, le mie e quelle altrui, prima di leggerle le guardo. Anzi, mi piace assaporare quel momento in cui un testo ha una forma che puoi cogliere con gli occhi ma non ne conosci ancora il contenuto, il significato, il messaggio. Poi, mi piace confrontare l’impressione della sola forma con quella del contenuto. Qualche volta è un gioco divertente, quasi sempre interessante.
L’ho sempre considerata una mia personale mania, dovuta ai miei studi storico-artistici, così come la mia collezione di capilettera, il mio amore per la tipografia e l’interesse per i font, la mia fame di immagini quando sono stanca di parole.Quando ho scritto tanto e mi sento esaurita, non attingo mai spunti e carica da altri testi, ma sempre da quadri. Per me staccare davvero è andare a vedere una mostra, visitare un museo.
Per ricordarmi delle potenzialità infinite del linguaggio, mi basta ricordare e rivedere quante decine di quadri e disegni – dalle impercettibili ma innumerevoli variazioni – Picasso sia riuscito a fare a partire da un capolavoro di qualcun altro, per esempio Las Meninas di Velasquez.
Quindi leggere nelle pagine di un grande grafico contemporaneo che la scrittura ha molto più a che fare con le immagini che con il linguaggio parlato ha avuto davvero il potere di un’illuminazione.Il libro in questione è La lettera uccide, e il grafico è il suo autore, Giovanni Lussu.
Non lo conoscevo, anche se conoscevo senza saperlo molte sue realizzazioni. Per esempio la grafica della rivista Internazionale, i famosi libretti dell’Unità di parecchi anni fa, la linea grafica di Roma Multietnica.
Lussu è figlio dell’uomo politico e scrittore Emilio e di Joyce, la poetessa traduttrice in italiano delle poesie del turco Hikmet.
E’ solo il nostro eurocentrico “pregiudizio alfabetico” – scrive Lussu – a opporre scrittura e immagini come due mondi separati, a fare quasi sempre delle seconde le “illustrazioni” e le ancelle della prima.
Ogni scrittura è anche e prima di tutto forma e immagine, e non c’è immagine che non sia anche discorso e scrittura. La scrittura non è un sofisticato sistema inventato per trascrivere la lingua parlata, ma si è sviluppata in maniera indipendente e parallela a questa. Lo provano la complessità e l’efficacia di lingue che non identificano fonema e grafema, ma anzi si sviluppano a partire dall’immagine, come le lingue dell’estremo oriente. Nella cultura cinese, pittura e scrittura si incontrano nell’arte calligrafica.
La scrittura non è un lungo nastro sequenziale di parole, come il parlato, ma organizza le parole e le frasi nella complessità spaziale della pagina. Come un pittore o un architetto.
E’ ovvio che un carme figurato barocco o una composizione verbo-visiva futurista, come un calligramma di Apollinaire o la Ursonate di Schwitters, sono indissolubili dalla forma; ma questo vale per qualunque testo scritto in alfabeto latino.
Il romanzo ottocentesco può forse dare l’illusione di una qualche indifferenza della forma rispetto al contenuto del testo; in realtà è esso stesso una specifica forma, la “forma romanzo”, applicazione del principio di linearità, fatta di righe tutte uguali, legata alla specifica modalità di lettura “in automatico”.
Ma già una poesia, qualunque poesia, sia stata intenzionalmente scritta e non soltanto trasmessa oralmente, non è definibile senza riferimento alla sua immagine visiva.
Si immagini di leggere la Divina Commedia su un display elettronico a scorrimento orizzontale continuo: quanto può esserne fruito, se non si vedono la lunghezza dell’endecasillabo e la struttura delle terzine e se non si ha la possibilità di scorrere verticalmente il testo per rileggere un verso o per confrontare le rime?
Con l’arte della stampa, l’autore perde la sua presa sull’aspetto visivo del testo: sarà qualcun altro a sceglierne la forma e il carattere.
Con le tecnologie informatiche e la possibilità di scegliere in prima persona spazi, forme, colori – persino inventare e usare direttamente nuovi font – l’autore può riprendersi tutto all’improvviso, ridiventare padrone della forma come del significato. Solo che spesso gli mancano la cultura, la storia, le conoscenze di quel mondo ricchissimo e decisivo per la fruizione e la leggibilità di un testo che è la tipografia. Cioè l’insieme dei caratteri e delle loro famiglie. Allora ci si abbandona a quanto i programmi di word processing ci propongono bello e pronto. Senza pensiero, consapevolezza, creatività, sperimentazione.
Tutte lacune che la scuola e la formazione sono chiamate oggi a colmare attraverso una nuova alfabetizzazione visiva, ma che quasi sempre ignorano.
Riscoprire la natura profonda e ancestrale del legame tra immagine e scrittura significa anche ridare senso alla parola “creatività” di cui a tutto il mondo della comunicazione piace così tanto riempirsi la bocca.
Veramente un ben post, l’ho letto con grande interesse. Giulia
E’ curioso perchè proprio oggi ho pubblicato un post con una poesia di Neruda, una poesia speciale per vari motivi, e ho sentito il bisogno di affiancarvi un’immagine. Ho scelto un quadro di Magritte, che vicino a questa poesia per me, in questo momento, mi sembrava giusta. Curioso e interessante. Elena
nel caso tu non l'abbia già letto, ti consiglio di cuore "Nato in un giorno azzurro" di Daniel Tammet: è l'autobiografia di un ragazzo autistico inglese che mi ha colpito molto perché ha fatto luce e dato un nome a quel "fenomeno sensoriale" – di cui io stessa sono oggetto – che associa i colori alle lettere ed ai numeri, la sinestesia. Fin da piccola ho sempre messo in relazione gli uni con gli altri e, forse grazie a questa "magia" (vissuta in modo del tutto sereno e costruttivo), ho avuto successo nella vita scolastica. E, leggendo il tuo incipit, mi ci sono ritrovata…
Io sapevo che la sinestesia associasse sensorialita' diverse…anche il tatto per esempio…
definire un rosso caldo e' di per se una sinestesia.
qualcuno ha visto rossi freddi in giro?
beh per me al di la di tutto il rosso scuro non e' propriamente caldo… per esempio al marrone do un'altra concezione di caldo…ma in generale al tatto essendo stata una bambina che ha trascorso l'infanzia nei boschi la terra non e' mai sembrata propriamente "calda", al rosso della passione un'altro ancora.
o che dire una voce ruvida…e' un altra sinestesia… ma anche una voce ruvida e calda…o un tono freddo e tagliente….
sono tutte sinestesie.
immagino cara luisa che tu abbia in casa quindi "gli elementi dello stile tipografico" di Bringhurst…;)
chiedo scusa: Luisa non luisa….