Tra i temi che non tratto mai nel blog ci sono anche molte buone cause. Però l’email-appello dei genitori di bambini con handicap contro i tagli agli insegnanti di sostegno che ho ricevuto poco fa (Nessuno tocchi i disabili!), mi ha evocato due ricordi, uno recentissimo e uno lontanissimo, che hanno parecchio a che fare con il linguaggio.
Quello recentissimo è la risposta del ministro Fioroni su Repubblica alla lettera aperta della mamma di un bambino handicappato che non ha trovato la sua insegnante di sostegno al ritorno a scuola.
Ovvio che non è al ministro che si possono imputare i tagli, che ne avrebbe fatto volentieri a meno e che il suo dispiacere è sincero.
Ma credo che la risposta – piena di banalità, di appigli alla legge, di scuse non richieste, di frasi fatte, di responsabilità scaricate verso altri e di vaghe promesse – abbia fatto più male che bene alla signora e abbia profondamente deluso i lettori.
Ma tant’è: ormai se esiste il canale, va riempito. Se c’è una lettera aperta, bisogna rispondere. Con quali parole, non importa. Se i comportamenti non corrispondono e non seguono, ancora non importa. Alla mamma di Luca abbiamo risposto, per di più su Repubblica.
Le intenzioni saranno state ottime, ma la risposta era proprio brutta, con le sue parole scollate dalla realtà, il tono inappropriato alla circostanza e alla destinataria. Sembrava una brochure o il discorso a un convegno (“I bambini diversamente abili hanno diritto ad avere un loro progetto su misura, adatto a ciascuno a seconda del problema, un percorso individualizzato che vada anche oltre la scuola”, “la nostra cifra distintiva”, “non abbiamo alcuna intenzione di rinunciare a questo primato”, “proseguendo e confermando la linea della scuola italiana di riconoscere l’integrazione degli studenti diversamente abili come condizione imprescindibile di civiltà e di qualità”), non la risposta a una mamma in cerca di un aiuto concreto.
L’altro ricordo è lontanissimo e risale alla mia terza elementare. Scuola presessantottina, dove le classi erano di quaranta bambini, tutti ingenui, pieni di paura e di rispetto per l’autorità. Accanto a me, per tutto l’anno, è stata seduta Tiziana, sordomuta. Così la chiamavamo, senza alcun complesso. Eravamo molto più vicini al lessico del Cuore deamicisiano che alle diverse abilità di oggi.
Insegnanti di sostegno non c’erano, ci sostenevamo da soli. La maestra mise Tiziana al primo banco, così poteva vedere con chiarezza i movimenti delle sue labbra quando parlava. Quanto a me, se parlando mi giravo, la mia compagna mi riacchiappava per le spalle e mi costringeva a guardarla in faccia, facendo un sacco di gesti che impararai pian piano a conoscere e a usare anch’io. Altre volte, erano i miei compagni a riprendermi: “Ah Luì, girate, che Tiziana nun te vede e nun te sente!”.
grazie per il tuo ricordo, Luisa!
ciao
Alessia