Riferita agli artisti, la parola “genio” spesso serve ad allontanarli e a renderceli un po’ antipatici, tanto l’arte degli ultimi due secoli ci ha abituati a identificare verità e bellezza con l’irregolarità e lo scarto dalla norma. Se poi alla parola “genio” uniamo “rinascimento”, cioè il periodo che più associamo alle vette della perfezione, l’artista sale sull’olimpo, ma si stacca da noi.
Forse è per questo che per tutta la mia adolescenza, e poi durante i miei studi, non sono riuscita a sopportare Raffaello e le sue placide e quiete madonne, oppure quelle summae di conoscenza passata e presente che sono gli affreschi vaticani.
Quel genio perfetto, morto a soli 37 anni, aveva poco da dirmi: vuoi mettere con le indagini leonardesche o i tormenti e la poesia di Michelangelo?
Il tempo che passa mi ha riconciliata con i genii apparentemente perfetti, e ora amo moltissimo il mare calmo della pittura raffaellesca.
Anche a proposito di Albrecht Dürer si parla di “genio rinascimentale”.
Scienziato eclettico come Leonardo, usa il pennello e la punta d’argento per indagare prima ancora che per rappresentare il mondo.
Conosce tutte le tecniche. Con la matita morbida ridà vita ai puttini della scultura romana, che diventano paffuti e vivaci bambini. Con l’incisione illustra i primi libri a stampa, racconta le storie sacre, recupera l’antichità degli archetipi nelle misteriose figure della melanconia, del cavaliere con la morte e il diavolo, o la fortuna che vola e regna sui nostri destini dall’alto del cielo di una carta di tarocco.
Con l’olio fiammingo e lucido racconta la storia sacra o si rappresenta in tutte le tappe della sua vita, dall’età di tredici anni in poi. Ritratti di sguardi diretti e profondi, senza mediazioni, come Leonardo e poi Rembradt e Caravaggio.
Consapevole del suo valore e della sua autonomia di artista, ribaditi dall’inconfondibile e onnipresente monogramma AD.
In più, Dürer è il ponte e la cerniera tra due culture, quella italiana e quella tedesca: viaggiatore tra Norimberga e Venezia, dove conobbe i fratelli Bellini, Giorgione e Mantegna, portò al nord la classicità e la prospettiva, ma ricambiò la civiltà mediterranea con le sue incisioni, che continuarono a ispirare gli artisti italiani dal primo cinquecento su su fino a Caravaggio, i Carracci, Guido Reni.
Genio rinascimentale, ma genio vicino e quasi familiare, il Dürer che ho ammirato per più di due ore questa mattina alle Scuderie del Quirinale. Non solo per le dimensioni domestiche della maggioranza delle opere, ma per gli sguardi così vicini permessi dalla mostra e per lo sguardo così vicino alla natura e alle cose dello stesso Albrecht.
Un iris dal lunghissimo stelo sembra appena uscito da un erbario: vero e simbolico al tempo stesso, perché l’artista ne ha fatto l’emblema del trascorrere del tempo, dal fulgore della piena fioritura al momento in cui comincia ad appassire.
Acquarelli, tecnica impressionista e veloce, per gli appunti di viaggio, mentre scendeva in Italia: Innsbruck, i castelli di Arco e di Trento, un mulino ad acqua in rovina sul ciglio della strada.
E gli animali: il famoso leprotto, i levrieri che ritrovi dappertutto, a far compagnia a una dama contemporanea come agli dei, i cavalieri e i cavalli a rappresentare la gloria terrena ma anche la forza domata delle passioni, come sarà per altri tedeschi di quattro secoli dopo, quelli del Cavaliere Azzurro.
Ma su tutto le persone. Niente compiacimenti, niente simboli del potere né della professione, niente adulazione. Solo volti ravvicinati in uno spazio vuoto, con le ciocche e le rughe indagate una per una, lo sguardo dritto verso un orizzonte che non vediamo, che sia il potentissimo mercante Jakob Fugger o un’anonima ragazzetta veneziana.
Ma se tra i tanti, cogliete uno sguardo diretto senza esitazione su di voi, potete star certi: è un autoritratto, Albrecht che non rinuncia mai a indagare e interrogare con gli occhi.
L’arte è stata importante nella mia formazione. Ricordo che era l’arte rinascimentale ad attrarre di più la mia attenzione di giovane e inesperta studentessa di Lettere. L’ho rimeditata a lungo. Ricordo ancora che mi aveva impressionato l’Autoritratto a 28 anni di Durer (spero di non sbagliare): mi sembrava Cristo.
E tu pensa che per gli storici ormai il vero rinascimento è quello che va dal X a tutto il XII secolo…
Stranezze della vita.