Sabato, sul Corriere della Sera, c’era un articolo molto sfizioso sulla “dittatura del tu”, a firma del giornalista americano Christopher Hitchens.
E’ il dilagante fenomeno che vede organizzazioni pubbliche e private apostrofare direttamente il cliente o il cittadino illudendosi così di “rafforzare la relazione”.
E’ il caso dei mille slogan la nostra mission: le tue esigenze, costruito intorno al tuo mondo, tutto intorno a te, sei tu che scegli, spiaggie uniche solo per te, ogni cliente per noi è unico: proprio come te, diamo risposte alle tue domande.
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Per la mia esperienza, tutto questo fiorire di pronomi personali e aggettivi possessivi deriva sì dal desiderio spesso ingenuo di accorciare le distanze, ma anche dalla loro onnipresenza in inglese. Nelle aziende multinazionali si traduce pari pari, e gli altri seguono.
Quando poi è unito a imperativi e punti esclamativi l’effetto può essere addirittura opposto. Nella peggiore delle ipotesi il povero cliente si sente accerchiato, soffoca e cerca una via di scampo, nella migliore si nausea per tanto stucco e zucchero. Vuole scegliere sì, ma mica con la badante appresso!
Quella della call to action è arte sottile, fatta anche di lei e tu, ma soprattutto di rispetto, attenzione e terreno preparato fin dall’inizio della pagina, del sito, del documento, non di improvvise scorciatoie.
Concordo con la tua conclusione, anche perché in alcuni ambienti è lecito aspettarsi rispetto e distacco (una buona comunicazione in inglese, pur usando solo lo you sa mantenere le distanze). Alcuni, in italiano, scendono nel ridicolo dando del lei nel benvenuto e del tu nel sottomenù (o viceversa che è lo stesso). Ardovig
Non si può che condividerti… é un piacere leggerti, tornerò a trovarti spesso…
E che cosa mi dici delle riviste italiane dedicate al cosiddetto life style, come i fantastici Fox, Health e For Men, che non solo danno del tu al lettore negli articoli, ma lo maltrattano anche un po’?
Ciao, Fabio.
Stavo per commentare anche io l’articolo (che condivido) quando ho visto il tuo post… Ti ho linkato, che è meglio. Ma quanto è difficile scrivere “pubblicitese” senza il tu.
Ciao
Carla
un piccolo aneddoto, su scala ridottissima, però in tema. qualche tempo fa, d’inverno. la commessa molto giovane mi fa provare un berretto inglese. a me sembra classico, lo indosso per il suo verso, lei me lo gira a rovescio sulla fronte, lo calca, mi dà del tu. sono perplesso: il berretto mi piace, ma quel modello, adesso, si porta rovescio. lo lascio sul tavolo, ci penserò. la commessa cerca altri cappelli dandomi del lei.
Credo che nella comunicazione scritta pubblicitaria il “tu” sia la forma più gradevole poichè quando si legge si è davvero a “tu per tu” con la parola scritta. E’ piuttosto l’insieme del messaggio che non deve essere eccessivo nè perentorio. Per quanto riguarda l’ispirazione dalla lingua inglese/americana credo che ci tolga un po’ nella forma ma ci insegni molto sull’impatto della sintesi nella comunicazione.
Non sono un’esperta in materia ma questo è ciò che penso.
Grazie Luisa per i bei post che invitano alla riflessione e al ragionamento.
Eli –