Composizione VII: un enorme quadro dipinto da Kandinsky in soli tre giorni nell’ottobre del 1913. La sua compagna di allora, la pittrice Gabriele Münter, fotografò i vari stadi della realizzazione dell’opera.
E’ un’esplosione di forme e di colori, in cui si disintegrano tutti i temi fino ad allora cari a Kandinsky: le campagne di Murnau, i treni neri, i cavalieri azzurri, le cupole a cipolla delle chiese russe.
“Composizione”, come quelle musicali. E proprio a questo aspirava il pittore: a sprigionare la musica e il ritmo anche dalle forme e dai colori, a usare i colori come i tasti di quel pianoforte “dalle mille corde” che è l’animo umano.
Per farlo doveva liberarsi di ogni residua schiavitù della realtà, dell’oggetto. Anche se in questo quadro monumentale riusciamo ancora a intravedere delle tracce di mondo: dei tralicci neri, degli archi, una testolina di gatto che sembra uscita da uno dei quadri dei suo amico Franz Marc.
I colori vivacissimi si inseguono in un ritmo vorticoso e in forme che sembrano farsi, disfarsi e aggragarsi sotto i nostri occhi – organiche e geometriche, lacci e fruste -.
Eppure la deflagrazione ha un suo rigoroso ordine e coerenza interna, come una griglia di Mondrian.
Tutti i colori sembrano qui messi alla prova, per sprigionare le loro potenzialità di “suono” cromatico: il giallo espansivo, con la sua vocazione a illuminare tutto ciò che lo circonda; il blu spirituale perfetto, voce del cielo e del violoncello; il rosso pieno di energia in cui risuonano le fanfare; il verde, il colore più fermo e più calmo che esista; e il viola, dal suono profondo come quello della zampogna.
Dopo l’esplosione, Kandinsky riprende i colori uno per uno, in quadri più piccoli per studiare i loro rapporti con le forme. Ognuno ha quella che lo esalta: il giallo il triangolo, il blu il cerchio, in cui si rinchiude e contrae come “una tartaruga nel suo guscio”. Nascono composizioni quasi monocrome: rosa carichi e profondi, verdi sereni, ma pieni di ritmo, neri di buio con qualche falce di luna, giallo pallido con pochi elementi come in un deserto, una tavola di 30 ideogrammi danzanti in bianco e nero, come un nuovo alfabeto.
Se i colori cantano, infatti, le forme danzano. Fino al vero balletto celeste in un azzurro che acceca: c’è Mirò, ci sono Arp, i surrealisti e i dadaisti negli angioletti di Kandinsky, Beato Angelico novecentesco.
Le schegge delle esplosioni di Kandinsky arrivano anche nel chiuso dell’Italia fascista, incendiano menti e sensibilità dei giovani artisti, anche se alla mostra organizzata nel 1934 alla Galleria Il Milione di Milano vengono vendute solo due piccole opere. Ma il varco sul nuovo mondo senza oggetti ormai è aperto: vi passano Prampolini, Fontana, Licini, Melotti, Munari e tanti altri fino agli anni Cinquanta.
Il mondo senza oggetti trova i suoi esploratori italiani e si popola rapidamente, ma Kandinsky ha illuminato l’ingresso, ha indicato la botola.
Niente sarà più come prima. Come sempre succede dopo le grandi “rivelazioni”: la Sistina di Michelangelo, la Cappella Contarelli di Caravaggio, Les Demoiselles di Picasso.
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farsi, disfarsi e aggragarsi
Molto bello e interessante questo tuo post, tornerò a leggerti, Ciao Giulia
Molto interessante. I quadri di Kandinsky hanno sempre avuto un fascino particolare nonostante io sia più legato al realismo, specialmente per le opere di Jean-François Millet.
bellissime opere. adoro Giallo, rosso, blu, 1925