“When confronted with difficulty, take an action, no matter how small.”
Mi sono fatta guidare da questa frase di un grande dello yoga, BKS Iyengar, per riprendere a scrivere questa mattina.
Staccare, fare il vuoto, abbandonare la verbalizzazione, rigenera il corpo e la mente, ma riprendere il filo può essere durissimo. Così ho ripreso da una cosa piccola, una lettera. Breve, ma importante.
Ha funzionato, e le parole sono tornate.
Le parole. Tornando, ho trovato un’email in cui mi si chiedeva se conoscessi esercizi per migliorare il lessico. Lì per lì, ho pensato di non saper rispondere, ma la domanda deve aver lavorato dentro di me, perché ora un barlume di risposta forse ce l’ho.
Caro Giampaolo, esercizi veri e propri non li faccio, ma ora che ci penso ho i miei metodi, affinati nel tempo, soprattutto negli ultimi tempi, in cui ho svolto lavori in cui il lessico era importantissimo.
Nei testi lunghi lavoro infatti prima di tutto sulla struttura, ma quando scrivo testi più brevi, che devono concentrare concetti, far immaginare e desiderare, il lessico è tutto. Scelgo le parole con cura, e con altrettanta cura scelgo la collocazione migliore. Sposto e provo l’effetto che fa svariate volte. La parola può essere quella giusta, ma se il posto è sbagliato non serve a molto.
Mi scrivi che scegli sempre le stesse parole e chiedi come ricordarsi di tutte le parole che conosciamo nel momento in cui ci servono.
Un famoso docente di giornalismo, Roy Peter Clark, la chiama la “sindrome dello stagno”: “Quando leggiamo disponiamo di un vocabolario vasto come un lago, ma quando scriviamo si restringe fino a diventare uno stagno”. In quello stagno ci sguazziamo tutti, ma già rendersene conto è molto.
Per tornare a nuotare nella vastità del lago, io uso vari metodi. Non veri e propri esercizi che svolgo a comando, ma abitudini che ormai fanno del mio modo di lavorare.
1. Restringo il campo
Quando si scrive, non c’è nemico peggiore della “libera espressione”. Almeno per me. Faccio una lista rigorosa delle parole “proibite”, che mi propongo di non usare in quel testo. Parole formali, vuote, rituali, troppo sentite, già abusate dalla concorrenza.
2. Non perdo nulla
Soprattutto in progetti e testi importanti, scrivo solo alla fine, dopo un bel periodo di gestazione. In questo periodo mi vengono in mente molte cose: idee, ma anche parole, metafore, associazioni, possibili titoli, immagini, una “chiave” particolare per cominciare. Prendo nota di tutto, anche di cose apparentemente inutili. Sembra facile, ma non lo è, perché sono tutte cose che arrivano quando non te le aspetti, non quando sei seduta con il pc davanti. Quando guidavo molto, arrivavano invariabilmente sul GRA di Roma, ora magari mentre taglio le verdure. Qualche giorno fa ho abbandonato precipitosamente il tagliere per buttare giù un intero indice di un prossimo quaderno.
3. Metto paletti
Quando mi va – perché deve essere un gioco, non un compito – scrivo ponendomi dei vincoli: poesie con parole che iniziano tutte con la stessa lettera, o dalla A alla Z senza saltare una lettera, oppure libere associazioni-clustering a partire da una parola e via ad aggiungerne altre senza censura, o ancora mi propongo di usare una data parola e di creare per lei un contesto testuale che abbia un senso.
Un famoso scrittore professionale inglese, John Simmons – si esercita nella metropolitana di Londra impegnandosi a scrivere tutti periodi che iniziano con una lettera e finiscono invariabilmente con un’altra…
4. Disegno le parole
Qualche volta mi aiuta scrivere le parole chiave o la mappa concettuale di un testo con pennarelli colorati su un grande foglio A3. È la mia scaletta visiva, sempre sotto gli occhi. Anche dalle forme e dai colori possono nascere altre parole (“Da bambino mi meravigliarono le lettere dell’alfabeto. La V era un gabbiano sulla spiaggia; la T l’attaccapanni dove appendevamo i soprabiti nelle mattine fredde del collegio; la J l’amo con quale pescavamo nel fiume; la P la spada per uccidere il toro nelle corride.” Rafael Alberti)
5. Leggo molta poesia
Ma anche questo, lo faccio solo perché mi piace.
Moltissimo mi hanno insegnato alcune scrittrici per bambini: Ersilia Zamponi con il suo Calicanto, Bianca Pitzorno con il Manuale del giovane scrittore creativo, Donatella Bisutti con L’albero delle parole.
Sul foglio bianco, alla fine qualcosa accade. E se rileggendo ad alta voce non ci soddisfa, tagliare, spostare. E se non va ancora bene, buttare. Senza pietà. Per tornare al bianco.
Quella che definiscono la seconda patria della fantasia di Calvino,
il 1979, i rapporti con Queneau (Scrittore Francese che attuava una monumentale analisi linguistica)
e un libro sul gusto di scrivere: Se una notte di inverno un viaggiatore, è per me
Un oceano sterminato di parole, di stili, di ricerca e soprattutto di sperimentazione
linguistica. (Mi sembra di aver capito che a Luisa non piaccia particolarmente Calvino,
ma ne riconosce le indubbie qualità narrative e stilistiche).
Immagina un capoverso che cominci proprio con:
Se una notte di inverno un viaggiatore… e poi seguono altre nove frasi, e altrettanti stili,
inizi di romanzi, mondi… nebulosi, concreti, d’avventura, e dietro sempre la stessa penna, come la notte
dietro le stelle, come l’autore dietro le sue storie.
Credo che questo testo sia il più interessante che mi sia capitato tra le mani sul tema di scrivere,
paragonabile soltanto a “Vivere per Raccontarla” di Gabriel Garcia Marquez.
Un’altra avventura linguistica di assoluto fascino, dove l’autore rivela ossessioni della sua scrittura,
e il lento percorso che lo ha portato dalle canzoni e dalla cadenza giornalistica di testi nudi come “cronaca di una morte annunciata” fino
a monumenti della letteratura contemporanea, come Cent’anni di solitudine, o L’amore ai tempi del
colera.
Caro Giampaolo, con questi due libri ti sentirai rinascere… ci scommetto.
bella illustrazione ….
Ciao
E’ un bel testo: si legge velocemente (adatto per il Web), è efficace (serve per scrivere) ed è utile (impari subito qualcosa).