Oggi, su Io Donna del Corriere, Beppe Severgnini ha dedicato la sua rubrica alla parola “mission”.
In questo caso non particolarmente originale, né tempestivo – il nostro Italian – ma sempre garbato e divertente.
A dire il vero la mission – nel mondo della comunicazione – è ormai talmente superata e abusata da fare piuttosto “provinciale”. Difficilmente la troverete sui siti dei grandi brand italiani e internazionali, ormai scafatissimi con i loro testi diretti, leggeri e conversational.
No, la “mission” no!
di Beppe Severgnini
Qual è la parola più ridicola nel vocabolario nazionale? L’ho capito ricevendo una lettera da Rivoli, meritevole città piemontese (riassume, nel nome incolpevole, i mille sprechi italiani). Rossella Stella detesta il termine “mission”. Ha ragione: non se ne può più. Società, enti, aziende, gruppi e associazioni non dicono più cosa intendono fare. No: annunciano la “mission”. Uno si chiede: cosa vi costa aggiungere una vocale (“e”) e spiegare la vostra “missione”, in italiano? Niente da fare. “Missione” sembra vecchio e polveroso. “Mission” suona profumato, sexy, futuribile.
Stella Rossella – nome bolscevico, signora: il presidente del Consiglio potrebbe chiederle di cambiarlo – cita un film di vent’anni fa, “The Mission”, con Robert De Niro che si buttava giù dalle cascate, o qualcosa del genere. L’ossessione sarà nata allora?, si domanda. Mi sento d’escluderlo. Il protagonista di “The Mission” era un missionario, interpretato da un attore americano: ci poteva stare. Ma perché una ditta di bottoni di Bologna deve annunciare “la mission aziendale”? Dica invece: “Facciamo bottoni”. Non astronavi, non antibiotici: bottoni. Obiettivo degno e socialmente utile: le astronavi e gli antibiotici hanno molti meriti, ma non tengono chiuse le camicie.
Qualcuno dirà: non è stato “Mission” del 1986, è stato “Mission: Impossible” del 1996, con Tom Cruise che faceva l’agente speciale: l’epidemia è partita da lì. Errore. L’unica missione impossibile, nel 2006, è impedire a tanti esagitati di ripetere: “La mission della nostra associazione…”. Oltretutto quella doppia “s” all’inglese, per molti italiani, è impegnativa: penso agli emiliani, ai laziali, ai siciliani. “Mission” diventa “miscion”a Modena, “mizzion” a Latina, “misssion” (tre “s”) a Messina. Tutti capiscono, è chiaro. Ma qualcuno ascolta e sorride.
Esiste un modo non-violento per dissuadere i malintenzionati verbali? Credo di sì. Si potrebbe introdurre un boicottaggio soffice – ho detto “soffice”, non soft – così organizzato. Appena un dirigente d’azienda – ho detto “dirigente d’azienda”, non manager – s’avvicina al microfono e dice “La nostra mission…” il pubblico aggiunga in coro una “e”. Quando una società commerciale spiega, su internet o sul giornale, qual è “la mission della compagnia”, basta rispondere: “Quella lasciatela ai gesuiti, che se ne intendono!”. E se in quella società non capiscono la battuta, meglio ancora: vuol dire che sono un po’ ignoranti. Cambiate società, e non sbagliate.
da Io Donna, 11 febbraio 2006