Giovedì pomeriggio, durante la seconda lezione sulla scrittura che ho tenuto nell’ambito degli incontri di orientamento della Bocconi, ho letto alcuni haiku del poeta giapponese del ‘600 Basho.
sera:
tra i fiori si spengono
rintocchi di campana
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della frescura
faccio la mia casa,
e qui riposo
Era un modo per mostrare ai ragazzi la potenza della parola concentrata della poesia e la sua capacità di contenere in pochissime parole interi mondi emotivi. “Linguapiena” come la definisce il poeta australiano Les Murray, opposta alla “linguastretta” del linguaggio consunto dei media.
E ieri, sulla pagina della cultura del Corriere della Sera c’era una bella recensione di Elisabetta Rasy al Grande libro degli haiku, monumentale raccolta appena pubblicata da Castelvecchi. Vicino un articolo di Fernanda Pivano sugli haiku di Jack Kerouac.*
A tre secoli di distanza, Basho e Kerouac scrivevano haiku viaggiando e fermando con le parole, su un taccuino, il passaggio di un’impressione, un’immagine portatrice di emozioni destinate a sparire in un soffio, con il prossimo paesaggio, i prossimi passi, il calar del sole.
Brevi e leggeri, gli haiku hanno una struttura rigorosa – spiega la Rasy -: tre versi di cinque, sette, cinque sillabe, e il riferimento costante alla natura, nell’indicare la stagione, una pianta, un animale. “Un lampo verbale di estrema precisione, in cui lo sguardo, l’emozione e la parola si saldano senza residui, cristallinamente.”
Lampi che sembrano contenere in sé tutti i valori che Calvino indicava per la letteratura del terzo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Luoghi strettissimi, in cui la poesia apre verso paesaggi e sensazioni di sconfinato respiro.
PS Un haiku di Kerouac:
Nightfall,
too dark to read the page
too cold.
a questo proposito mi permetto di segnalarti il mio blog di haiku:
http://www.ljuba.splinder.com
grazie
Ljuba
Dianella Bardelli)