Oggi, sul TuttoLibri della Stampa, ci sono due begli articoli dedicati alla lingua. Apparentemente lontani, ma non poi tanto.
Il primo, di Gian Luigi Beccaria, affronta un tema che mi sta molto a cuore, perché affligge tutto il mondo delle imprese e della scrittura professionale: il cliché, la frase fatta, apparentemente ricercata, al posto delle parole semplici, quotidiane, comuni, che tutti usano. Beccaria citava, in modo molto circostanziato, un servizio televisivo di qualche giorno fa in cui si diceva che un uomo “era annegato in uno specchio acqueo”. E dov’è finito il mare? Baudelaire non aveva paura di scrivere una frase semplice e indimenticabile “uomo libero, sempre amerai il mare”, il nostro giornalista evidentemente sì. “Strana lingua, strana tendenza la nostra, il voler perdere l’immediatezza delle parole vere, il non voler partecipare agli eventi con le parole più semplici! Preferiamo parlare con automatismi livellati sulle formule più anonime, che vivono al di fuori di noi.” scrive Beccaria “Ci rallegriamo che una lingua media si sia espansa orizzontalmente, ma se diminuisce la coscienza verticale, la conoscenza della parola, il suo mondo interno, la varietà e la profondità, allora quella ricchezza è dissipata, neutralizzata.” La “conoscenza verticale” di cui parla Beccaria mi ha ricordato una bellissima lezione della linguista M. Luisa Alteri Biagi, che disegnò su una lavagna la verticalità, ovvero la storia di una parola semplicissima e quotidiana: “ragazzo”. Da allora, il mio dizionario preferito è quello etimologico, che permette di immergersi nella profondità di una parola e delle sue vicende.
L’altro articolo è di Tullio De Mauro: Non parlare a vuoto: ricordati che la lingua ha un corpo. Anche lui parla di distanza, questa volta tra corpo e lingua: “Animalità, corporeità, comunanza sono altrettante radici delle nostre parole, anche le più rarefatte. Proprio per la enorme potenza intellettuale di ogni lingua, il locutore, se ne smarrisce le radici vitali, biologiche, animali, corporee, rischia di fingere di parlare, mentre in realtà fa girare a vuoto la lingua.” Non si scrive in uno spazio puramente mentale, ma con tutto il corpo: con la testa, le mani che battono i tasti, gli occhi che seguono le parole, le orecchie che ascoltano anche quando si rilegge in silenzio, i piedi che battono il tempo. Si scrivono in testa parole anche quando si corre, si cammina, si va in bici. Ci si riposa dalle fatiche della scrittura soprattutto facendo riposare o lavorare il corpo.
C’è poi la fisicità delle parole. La loro lunghezza, la loro forma, il loro suono. Quelle cose così concrete con cui da sempre lavorano i poeti.
Sono pienamente d’accordo sull’importanza dell’etimologia per recuperare il vero senso, la corporeità della parola.
L’eimo ci fa scorgere le radici nell’inconscio collettivo, nelle innervature della cultura.
cara Luisa e cari blogghisti
un dubbio mi assale:
“ci sono più rose che non gigli”
“ci sono più rose che gigli”;
qual’è la forma corretta?
io propendo per la seconda, ma sento sempre più spesso la prima.
Se è corretta la prima, perchè mi suona così male?
grazie…